MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.
Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”,
un capitolo è dedicato alla vicenda giudiziaria sulla morte di Marco Pantani.
Su questo Antonio
Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana
editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una
sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia
ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.
MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.
La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi
giorni del Pirata, scrive Alessandra
Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La morte di Marco Pantani comincia il 9
febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di un taxi. Sta scappando da
Milano, dopo una lite furibonda con i genitori. Sarà l’ultima volta che
vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal campione che era stato e di cui
lui per primo non vede più che l’ombra. È l’inchiesta che ha portato al
processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Il Pirata è sprofondato
nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene ancora il colpo di 15 grammi al
giorno, il suo cuore batte di una rabbia smisurata. Come quando correva è di
nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’ ora è solo la coca, e in riviera c’è
il suo fidato fornitore, Fabio Miradossa. Al processo riminese, testimoni,
investigatori e imputati hanno messo insieme i pezzi di quei cinque giorni.
Pantani si fa scaricare dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli
amici che ospitano lo spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha
minacciato di farlo arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio.
Si è spaventato ed è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione
è diventato un cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta
una grana: devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno
pressione su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il
suo galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera,
a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14
febbraio. Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le
Rose. Il Pirata ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno
di rado. Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi
sconnesse, insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al
bar per una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle
pulizie. Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia,
sceglie il buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta,
sta macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del
rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la
porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi è
testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la
portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la
camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del 5D.
Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto piano, ma
non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato. È preoccupato,
decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il passepartout, ma la porta
si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv e del telefono sono
rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un uragano. «Poi sono salito
nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco, non respirava più». Fine della
corsa.
CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE,
IL CASO RIAPRE E SI INDAGA...........
PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU
UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”, scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate, decine di
testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco Pantani è
finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed ora l’indagine
è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu suicidio volontario, ma
Pantani fu ucciso...», sostengono i familiari del campione romagnolo e, da
ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti. «Nessun commento, dobbiamo
approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato
del processo che ci fu a suo tempo. Quando - precisa il procuratore
Giovagnoli - arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario è sempre un
atto dovuto aprire un’indagine...». La svolta, clamorosa, è sul tavolo.
E, in un attimo, i fatti della notte del 14 febbraio di dieci anni fa tornano
sotto i riflettori. La procura di Rimini si metterà al lavoro, lo farà dopo
l’estate e l’indagine appena aperta durerà almeno un anno prima di arrivare
alle sue conclusioni. La famiglia del Pirata, da sempre, ha sostenuto
come non fossi possibile che il loro Marco avesse deciso di chiudersi nella
stanza della pensione sul lungomare per dire basta. Ora, dopo un decennio di
dubbi e perplessità, ecco il primo passo: l’esposto presentato in procura
dall’avvocato Antonio De Rensis, e accompagnato da una perizia accurata, è
stato giudicato fondato, ma dire oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo
è fin troppo prematuro. «Non fu suicidio, ma Pantani fu ucciso...»,
sostengono nella loro dettagliata ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora
esca la verità...», così gli ex colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo,
Claudio Chiappucci e Davide Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto
questo ritardo, è giusto che si vada a fondo sulla tragica morte di Marco...»,
sottolinea Chiappucci. «Forse - così Cassani - si sono date per scontate troppe
cose che non lo erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente
sia accaduto quella notte...». Il lavoro della procura di Rimini non sarà
facile. Come detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire
nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni
del processo già celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione
per chiedere la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli
attimi di vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è
voluto un faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire
nella visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i
pm si metteranno in azione.
AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO
NELLA STANZA MALEDETTA, scrive Giorgio Viberti per “la Stampa”.
Domande e risposte sui misteri di quella notte.
Perché Marco Pantani è uno dei campioni
più amati e insieme discussi nella storia dello sport e non solo nel ciclismo?
«Perché si
dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece entusiasmare i tifosi
quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi una sospensione dalle corse
molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni, in circostanze quasi
misteriose».
Per molti Pantani non fu soprattutto il
simbolo di un ciclismo diventato ostaggio del doping?
«In quegli
anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito lo
confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai
positivo all’antidoping».
Ma non morì per un eccesso di cocaina?
«È quanto
asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. E
paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò positivo a una
sostanza dopante».
Pantani assumeva cocaina anche quando
correva?
«Non venne
mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore, ma è probabile
che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc per l’esclusione
dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due tappe dalla fine per
ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo denso».
Perché si torna a indagare sulla morte del
Pirata dopo dieci anni dalla sua morte?
«La mamma
Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del suicidio
involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali hanno raccolto
una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i giudici a riaprire
l’inchiesta».
Ma è lecito pensare che la prima inchiesta
non sia riuscita a fare piena luce sulle cause della morte?
«Secondo
molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che quantomeno
lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di dieci anni fa. Di
sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere emersi elementi nuovi e
importanti di valutazione».
Per esempio?
«C’è
l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui fu
trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano essere lì,
del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il disordine
troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di aiuto che il
Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina trovata nel suo
organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le escoriazioni sul suo
corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse stato trascinato...
Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia stato ristrutturato
pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare ogni prova residua».
Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a
trovare tanti nuovi indizi?
«L’avvocato
Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i faldoni sia
delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo processo. Ma non
basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni chiave di quella
vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia medico-legale eseguita dal
professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto tantissimi elementi nuovi».
Ma perché queste cose non emersero subito?
«È quanto
eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la prima autopsia
sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della morte e si rivelò
molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di medicina legale che
avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».
Chi avrebbe avuto interesse a falsificare
l’esito dell’inchiesta?
«Difficile
dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che magari coinvolgeva
anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e fare dei nomi».
Per questo potrebbe essere stato ucciso?
«È questa la
tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto dovrà appurare
questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di omicidio
volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei luoghi. Il
procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il fascicolo a Elisa
Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far luce su quanto
avvenne quel giorno».
«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI
OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato
speciale del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro
«Gli ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.
Brunel, che ne pensa di questa nuova
inchiesta?
«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di
Pantani ci sono troppe incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter
accreditare la tesi del suicidio involontario».
È quanto però emerse dalla prima inchiesta...
«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto
italiano, e fui incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire,
raccogliere testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non
quadravano».
Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?
«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e
amabile. Impossibile che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua
stanza d’albergo, come dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».
Tutto qui?
«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era
stato portato del cibo che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le
escoriazioni sul suo corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi
indumenti che non avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato,
il mancato rilevamento delle impronte...».
Per lei Pantani non era solo in quella
stanza, vero?
«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare
anche dal parcheggio sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo
pusher ma credo anche da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè
la scena della morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo
pochissimo tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove
rimaste».
Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di
Pantani?
«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che
magari coinvolgevano anche persone importanti. Una storia di droga e
prostituzione. Pantani era diventato un tossicodipendente, che frequentava
gente senza scrupoli. A un certo punto non ha più saputo controllare la situazione,
e ci ha rimesso la vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di
Tenco o Pasolini».
Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova
inchiesta?
«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso
si spingeva fino agli estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era
finito e si sentiva smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto
intelligente, che diceva sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare
scomodo. Non può essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in
una stanza d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».
«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo che non ha mai
convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De
Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco..., scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un processo
che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte
dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor
Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto che ha fatto
riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a carico di ignoti, di
omicidio volontario. Il medico legale - perito, tra l’altro, del caso Bergamini
- per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho solo aggiunto un tassello da umile
gregario al lavoro del legale», commenta. «La mia esperienza mi ha portato a
conclusioni diverse sulla morte di Marco Pantani. Si è trattato di rivedere gli
atti di causa e non solo, ma anche informazioni recuperate dalle indagini
difensive mettendo insieme i frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di
equipe con De Rensis». Il lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia
del campione morto a Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video
delle indagini, giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia
e all’esame autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere
di Marco Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria - aggiunge
il medico legale - non posso esprimermi al di là del fatto che il quantitativo
di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse da quelle
classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo creare
confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio lavoro finito?
- risponde Avato - Dipende dalle informazioni ulteriori che possono giungere,
tutto è perfettibile nella vita».
«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia sulla
morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo provano i
suoi scritti», scrive Davide Di Santo
su “Il Tempo”. «Non ci sono veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare
a «una overdose "omicidiaria"». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico
legale nominato dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di
Marco Pantani ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per
essersi portato il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella
notte del 16 febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette - più
tardi si apprese che si trattava di giornalisti - mentre tornava al laboratorio
per depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in
discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani,
Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San
Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era
barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle
indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco
Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo un
diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un
cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da
solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di
Pantani che furono ritrovati nel residence - le sue parole - prova certa del
suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose "omicidiaria" ma
solo da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto
scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e
quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va da
accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me», forse un
riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense («Colori, uno
su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più
contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano per sentire»). Prove
certe di un «delirio da cocaina», per il perito della Procura. Eppure molti
amici di Marco sostengono che anche quando era lucido il campione scrivera
poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la signora Tonina, conserva
ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie. L’altro elemento sottolineato
nella prima perizia è la morte sopraggiunta dopo l’assunzione prolungata di
droga, circostanza che si scontra con l’ingestione coatta, in un solo atto.
Nell’organismo c’era una quantità sei volte superiore a quella considerata la
dose letale minima, ma nel sangue «periferico» la concentrazione era
addirittura tredici volte più alta, mentre l’esame del midollo ha mostrato una
compatibilità con un uso cronico della sostanza. Il tutto in un quadro in cui
omissioni e incongruenze sono superiori alle certezze.
Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale
l’approccio alle indagini”. "Ogni
ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale"
afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia ha
contribuito all'indagine sulla morte del Pirata. "Un cold case è sempre il
segno di una primitiva sconfitta", scrive Alessandro Mastroluca su “Fan Page”. Pantani è stato costretto ad assumere
un enorme quantitativo di droga. È questa la conclusione principale della nuova
perizia medica completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla
famiglia del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai
risultati delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a
riaprire il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina
Legale e delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima
autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il perito
incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la fidanzata,
Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a Giuseppe Micieli
della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco Montorsi dell’Urologia
del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo Provenzano, per valutarne i
problemi di salute che lo avevano indotto a chiedere il permesso di poter
uscire dal supercarcere di Novara. Il suo esame sul corpo di Pantani si è
basato sull’autopsia del professor Fortuni e sull’analisi di quasi 200 foto a
colori e del video della Scientifica, ed è giunto a conclusioni diverse dal
primo esame autoptico effettuato quasi 2 giorni dopo il ritrovamento del
cadavere. Avato accerta la presenza nel corpo di un quantitativo di cocaina sei
volte superiore alla dose letale. La droga, ci spiega il professor Avato che
abbiamo raggiunto telefonicamente, “era in quantità tale da lasciar intuire
un’assunzione in forme diverse da quella classica. Il conteggio però è complicato,
eviterei le semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta
disciolta nell’acqua o l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di
competenza dell’autorità giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del
residence Le Rose c’erano molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere
bianca, e una bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora della morte tra le 10.45 e le 11.45
della mattina di San Valentino del 2004 e conclude che il cadavere sia
stato spostato, probabilmente nel pomeriggio, perché anche nel video della
polizia si notano segni di trascinamento spiegabili solo se il sangue
fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il corpo era poggiato sul fianco
sinistro” sottolinea Avato, “con la parte destra più alta. Rimanendo
così per molte ore, a causa dell’emorragia il sangue sarebbe defluito
maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il destro a pesare di più,
circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis
Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del
cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini
investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’
‘provinciale‘” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la
genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine che è
stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo
sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni
vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze
medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini
e di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una
tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da
manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i
passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il punto
sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere devono
sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così non è
stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si vedono addetti
che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e non prendono le
impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case non va inteso
come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche. Possiamo
discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione
organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il
marchio di una primitiva sconfitta”.
Marco Pantani non aveva più controllo sul proprio
patrimonio economico e immobiliare,
scrive “Il Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di polizia,
secondo cui il Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con la carta di
credito trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l'altro ieri, come
tutta la stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte nel giorno di
San Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con la famiglia, di
cui si è parlato nelle ultime ore, e l' allontanamento del campione da
Cesenatico, dove non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci sarebbero però
accuse ai parenti fra i biglietti trovati nella stanza del residence, affermano
fonti investigative. Le stesse fonti smentiscono categoricamente le
indiscrezioni sul contenuto dei foglietti riportate da alcuni giornali, in
realtà una sorta di testamento di una persona molto provata psicologicamente
che si è sfogata devastando la camera dell'albergo dove aveva preso alloggio e
affidando i propri pensieri a parole e frasi sconnesse, non riconducibili una
all'altra, di interpretazione impossibile. L'unico riferimento al mondo del
ciclismo che Pantani avrebbe fatto su un pezzo di carta dell'albergo è quello
alla sua bicicletta, una sconclusionata dichiarazione d'amore. Il ciclista
nella sua carriera aveva accumulato una fortuna: si parla di sei milioni di
euro che erano stati investiti in varie società, soprattutto immobiliari a Cesenatico
e in Romagna. Di queste società il campionissimo risultava essere
l'amministratore unico. Amministratore unico insieme al padre Ferdinando.
Questo già nel 2003, e forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a
seguire le vicende delle sue aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo
testimonierebbe, ad esempio, il verbale dell'assemblea della società
immobiliare «Sotero» del 30 maggio 2003 che aveva come ordine del giorno la
presentazione del bilancio 2002. All'incontro erano presenti Marco Pantani e
Ferdinando Pantani in qualità di amministratore unico. La precaria situazione
psicofisica del figlio aveva spinto il genitore a subentrargli nelle vicende
finanziarie. Marco avrebbe reagito male. In un momento delicato della sua vita,
segnata dalla fine della carriera sportiva, dallo scandalo mal digerito e
dall'accentuarsi dei problemi psicologici, forse l'ingerenza del padre è
suonata come una prova ulteriore del suo fallimento. È anche vero che negli
ultimi tempi la deresponsabilizzazione di Marco era diventata un fardello
pesante.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all'alba, amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato, cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa. La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l'amico che lo ha ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco di allontanarsi dalla famiglia c'era pure il suo zampino.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all'alba, amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato, cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa. La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l'amico che lo ha ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco di allontanarsi dalla famiglia c'era pure il suo zampino.
La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La Provincia di Varese”.
Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno teso un tranello perché
dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il ciclismo; il calcio e la
Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro: per questo lo hanno fatto
fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di altitudine, Alta Savoia, Francia, 19
giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e
lei hanno appena assistito all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco,
voluto con tutte le proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco
trapiantato a Les Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle
imprese più memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò
al trionfo nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno
sono sul Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net,
l’edizione on line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del
Carlino, La Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi
un anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al
Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende mai,
sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di quotidiano.net
avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la costruzione di quel sogno.
Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla memoria in queste ore in cui ha
fatto il giro del mondo la notizia della riapertura delle indagini sulla fine
di Marco, trovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose di Rimini.
L’ipotesi di reato è: «omicidio e alterazione di cadavere e dei luoghi». La
magistratura si è mossa dopo avere ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De
Rensis, legale dei Pantani. Né Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che
Marco fosse morto per overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché,
adesso, Tonina ripete le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier,
che i due genitori hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una
parte sono contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me
c’è anche rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel
2004 diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi
delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria di
Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San Valentino in
cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui che non era mai
stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di sapere che cosa fosse
esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno del ’99, mentre stava
vincendo il Giro, venne squalificato per un valore dell’ematocrito alterato di
un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da quel giorno hanno sputato solo
veleno addosso a Marco, spingendolo nel tunnel senza ritorno della depressione,
bisogna ricordare le parole del campione: «Ero già stato controllato due volte,
avevo già la maglia rosa e il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi
sveglio con questa sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di
Campiglio alle 13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del
sangue in un laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito
risulta pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per
sempre. La mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella
leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e Tonina
non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità anche su
Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.
Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando
sbandava. Non era un angelo né un
diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua diversa, sulla
canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte misteriosa, scrive
Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma siete
ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito che era
l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani continua a
dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva tutti lo
sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni, quella del
diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso troppo comode.
Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci positivi, anche gli
angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque, Pantani era un uomo. Un uomo
solo al comando quando staccava tutti in salita. Un uomo solo allo sbando dopo
Madonna di Campiglio. La lunga, sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva
più distinguere gli amici veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua
infelicità e quelli che la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi
riconosco pure in un libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto
Marco Pastonesi, collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che
nel ciclismo tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che
sa osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della
prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano,
nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i
corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque non
Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la morte di
Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla manager, dalla
madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e umanissimo
spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui) e una decina
di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le processioni:
sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani. Quelle
domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più famose.
Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso dire che
tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il suo mare
verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava agonia, la
fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in coda al gruppo e
poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri guardandoli in faccia. Lo
faceva apposta, non era un caso. Non era un caso l’alleggerirsi in vista
dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un avvertimento, come il drin
di un campanello: tra un po’ comincio a darci dentro, mi venga dietro chi può.
Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il quadro, dà voce a tutti i gregari di
Pantani, a chi s’è allenato con lui e ha corso con lui, anzi per lui, perché la
Mercatone Uno prevedeva un solo capitano, Pantani, e tutti gli altri al
servizio della causa, Se vinceva lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti
perdevano. Nella dilatazione del quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del
passato, e i grandi scalatori come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo
dei grandi scalatori, René Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a
una trave delle officine Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore,
dissero ai tempi. Nessun biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come
quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze
d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della
fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue
di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza
D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe
Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero
nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito
in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi non restano in
chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo
come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la
fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani
ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto
alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani
morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un
larghissimo ombrello. Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era
uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i
vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il
cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e
mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa
delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente,
come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di
quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli
piaceva ascoltare Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché
parlava una lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla
redazione quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto
Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di corsa.
Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi dicono che
quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho scritto. Non
avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori così. Come aprire
un rubinetto, o una vena.
Pantani, dopo quella morte speculazione infinita,
scrive Eugenio Capodacqua su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me
stesso, in nome dell’amicizia che mi ha legato per breve tempo a Marco
Pantani, e cioè che non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue
tragiche vicende. Pur conoscendo la sua storia nei minimi particolari non
ritenevo di dover puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un
uomo che ha comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace
sotto gli ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte,
riecco Pantani pronto ad essere di nuovo immolato sull’altare della
cronaca. Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’
immagine dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di
molti appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo
l’esposto dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza
l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle circostanze
di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il cammino delle
indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta piuttosto difficile. Ma,
più in generale, sembra arrivato il momento di fare un minimo di chiarezza. Per
lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la tv di stato) ha contribuito a
mistificare un dramma che è e resta umano prima ancora che sportivo. Pantani
trasformato in un eroe. Pantani campione, esempio da seguire e imitare. Pantani
vittima di chissà quale complotto. Pantani “capro espiatorio” di una realtà che
invece tutti conosciamo, purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca
stradopato che ha tradito la passione degli spettatori propinando uno
“spettacolo” al di fuori e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani
faceva sognare e del sogno in questa dannata società c’è fame come dell’aria,
dell’acqua, del pane. Lui incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente.
Quello che tanti “travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti
erano in grado di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa,
adesso. Da questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più
profondo l’animo degli appassionati. Ancorché alle prese con un problema
esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti protagonisti.
Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto esplodere. Mettendo in
risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche l’insensibilità, l’egoismo e
l’ignoranza di qualcuno che gli è stato accanto. Vediamo di ragionare con un
minimo di freddezza. Pantani è stato un eccellente ciclista. Un eccellente
scalatore che, doping o meno, probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le
folle con le sue gesta in salita, con il suo carattere e la sua personalità.
Perché comunque il ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come
tutti gli altri lo ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la
mamma – continua una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è
andata fuori di testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui
non si è mai data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale
dignità? Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione…
Perché che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai
chiarissimo. E adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è
addirittura comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente
da chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità a Pantani la si
restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando come
la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini di più
grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria effimera
(un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere guardinghi e
mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è tutto:
dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda depressione quando
un mondo costruito con cura crolla davanti al test di Campiglio. Pantani come
gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo distaccato tocca con mano la
profondità del baratro quando si finisce nei meandri della droga. Vede come sia
facile scivolare, cadere definitivamente. Eppure cosa era è successo, in fondo,
a Madonna di Campiglio? Nient’altro che quello che è successo a decine di altri
corridori. Uno stop (di soli 15 giorni, neppure una squalifica…) per essere
fuori dalle regole stabilite in quel momento. Scontata quella pena che
all’epoca non aveva neppure il marchio del doping (“sospensione a tutela della
salute”) tutto era finito. Ma paradossalmente è stata proprio la
sensibilità particolarissima dell’uomo, la coscienza e il sentimento di
vergogna per essere stato scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono,
e si è rifugiato nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno
da tempo. In un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici.
Ciò che lo rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per
questo ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le
celebrazioni e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla
morte. Mi da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico
attorno a tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato
e continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un business
milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla sua tragica
epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute. Fra il 2003 e
il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane, donazioni, libri,
poster, foto e tutto il merchandising connesso sono arrivato a calcolare quasi
un milione di euro. Una cifra che si può tranquillamente moltiplicare per 3,
per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro che a questo mercato serva l’eroe.
Anche se eroe non è. Pace all’anima sua. Il sistema che in qualche modo lo ha
messo in un angolo, continua a succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola
dell’eroe tragico. Della vittima predestinata. Del campione che suscita invidia
e viene eliminato. Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è
tutto più che comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un
esempio ai giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento.
Complotto? E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La
Fiat perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo
voleva in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto?
Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di recente
appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è di mezzo la
giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste e lette in
passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola. Qualcuno ha tirato
fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo ematico a Campiglio che
sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma – è addirittura banale –
scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume anche la parte liquida non
solo quella corpuscolare e il rapporto in percentuale dell’ematocrito resta
inalterato. Insostenibile scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un
elemento saliente della tesi complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il
medico prelevatore? I medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5
giugno 1999 hanno ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando
gli stessi valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che
sfiora la calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve
anche spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono
solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al tifoso.
Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel tempo. E non
solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi sulle strade del
Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè il dio denaro.
Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la Procura di Trento.
Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna sostituzione di provette
(il sangue era di Pantani, come hanno provato i test del DNA), nessun
complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra delle scommesse. Ma le
indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E ad anni di distanza il nome
di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe consigliato di non scommettere
su Pantani perché non sarebbe arrivato a Milano nonostante la maglia rosa sulle
spalle e la classifica ormai blindata dai risultati, ancora non viene fuori. Su
Pantani si specula. Come definire altrimenti il sottolineare l’irregolarità
della procedura punto centrale in una delle ultime pubblicazioni? La provetta
sarebbe stata scelta da uno dei medici prelevatori e non dall’atleta come vuole
il regolamento. Un vizio di forma ininfluente ai fini del test. A meno di non
chiamare in causa la stessa ditta produttrice delle provette, che sono
sigillate e sottovuoto. Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma
a cosa può servire tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non
si può fare nulla se non instillare senza motivo il dubbio generico che
qualcosa di irregolare sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per
accalappiare ancora di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe
potuto fare ricorso contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla
realtà storica: l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato
otto volte sul sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta,
come del resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani
si era affidato già dal ‘94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la
provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto dell’ignoranza
se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi. Basta pensare alla
temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in una tasca? Difficile.
Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non riscaldata. Ma tant’è. Lo
dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi convincono. Come quella che la
macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe “visto” un ematocrito alto per via
del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli esperti sono chiarissimi: “E’
impossibile – sostiene Benedetto Ronci ematologo di fama dell’Ospedale San
Giovanni Addolorata di Roma, consulente dei pm nella inchieste doping più
clamorose – anche se le piastrine hanno tendenza ad aggregarsi non
incidono sul volume corpuscolare; non possono modificare in alcun modo l’ematocrito”.
Piuttosto al medico che avrebbe fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei
giorni andrebbe posta una semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo
prolungato per settimane l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare?
Altro discorso è la morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O
si sposa la tesi dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose
mortale), overdose accidentale, come dice il referto di morte e dunque si
spiega così il delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera
n.5 del Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato.
Oppure si allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che
dall’ora della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera,
alle ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al
particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso che
venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà rispondere
l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il massimo della
comprensione per una morte assurda con quello sportivo sfruttando la mozione
degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto in nome della tragedia? E
cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui quell’esempio e sarai felice?
Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del
mistero Pantani. Chi poteva volere
morto il campione? L'inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi e ruoli
dei personaggi dell'affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”.
«Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir» di questa
estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma Tonina. A
raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un fascicolo
presso la Procura di Rimini che ha competenza sull'accaduto è l'avvocato De
Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi
contenuti nelle pagine (120) dell'istanza. Un romanzo che ha una storia buia,
molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per orientarsi,
mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi assegnare la delega a
indagare, carabinieri o polizia.
A come avvocato. Antonio De Rensis è l'avvocato della famiglia Pantani, che in nove mesi
di lavoro ha raccolto una serie impressionante di contraddizioni e anomalie. È
a lui che si deve l'esposto per la riapertura del caso.
D come dubbi.
Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle conclusioni
prospettate all'epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva eseguito
l'autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di Avato? Molti. A
partire dall'ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le 11.45. La quantità
di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da
essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri per eludere i controlli.
Impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile. L'unico
modo per farlo è diluirla nell'acqua e farla bere a forza (la bottiglia trovata
nella stanza, non viene nemmeno analizzata). Le numerose ferite sul corpo di
Pantani sono compatibili con opera di terzi, con evidenti segni di
trascinamento del cadavere. Il corpo di Pantani è poggiato sul fianco sinistro
ma per Avato è il polmone destro a pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo
di Marco è stato spostato dalla posizione originaria della morte. E poi c'è la
stanza, con il suo «disordine ordinato». L'ipotesi è fin troppo chiara: far
passare Pantani in preda al delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa
e non sarà più possibile farlo neppure 10 anni dopo.
E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale (lo stesso
che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini, il calciatore
«suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per completare e
avvalorare l'esposto preparato da De Rensis.
I come imputati. Dieci anni fa l'indagine sulla morte di Pantani viene svolta dal
sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra mobile di
Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata, il 14 maggio
2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano di cocaina del
romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista russa che ebbe una
relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese, titolare di un'agenzia di
immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano che portò la dose letale a
Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il barista peruviano Alfonso Ramirez
Cueva. Il processo di primo grado inizia il 12 aprile 2005 davanti al Gup di
Rimini. Vengono in seguito accettati i patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10
mesi) e di Veneruso (3 anni e 10 mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri
accettano di affrontare il dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino
viene condannato in primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.
M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è una figura
non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle ultime a vedere
Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per questo Marco passa il 26
gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che porta su a Milano. Il 31
gennaio Marco ha una lite con la manager davanti agli occhi di mamma Tonina e
papà Paolo, chiamati per l'occasione dalla Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide
di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare una «sportina» di effetti
personali (non ha valige) ad un hotel in piazza della Repubblica. Marco qualche
giorno dopo parte per Rimini. Uno dei grandi misteri di questa vicenda è: come
ci sono arrivati i tre giubbotti al residence Le Rose?
P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al quale è stato
consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l'ha assegnato ad Elisa Milocco,
giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei
far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.
Pantani, il legale accusa: "Inchiesta piena di
buchi". Nove mesi di indagini
private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio.
L'avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: "Troppi silenzi",
scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo
cellulare l'avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri e
difficili, di rilassarsi un po', di liberare la mente dalle tossine accumulate
durante la preparazione di un'indagine difensiva molto delicata. «In verità
forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare pochissimo».
Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del Consiglio,
l'avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un «rottamatore»: non vuole
mandare a casa nessuno ma smontare teorie e ricostruzioni fatte dieci anni fa,
quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di lavoro, di indagini e alla perizia di
parte effettuata dal medico-legale, il professor Francesco Maria Avato, la
ricostruzione originaria sulla fine tragica di Marco Pantani è stata smontata
pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi, per arrivare ad una nuova fase di questa
storia che in dieci anni non ha finora trovato la vera parola fine. E una
verità. Al momento il bandolo della matassa è nelle mani del procuratore Capo
di Rimini Paolo Giovagnoli e in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente
così - spiega l'avvocato De Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché
ovviamente sono tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare.
Bisognerà solo avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non
ha mai creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte
dall'avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo e
studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è
concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza il
legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le tante
incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda, non
voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità o a una
domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa essere più
decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive perché
concatenate l'una all'altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero della
prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo della
storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non sono
abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in tanti».
L'avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo di parlare
con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma soprattutto noi
vogliamo raccontare che all'epoca dei fatti non sono state prese le impronte
digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti mentre il girato è di due
ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi sembra di parlare di atti
dell'indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa è stato fatto o meglio, non è
stato fatto all'epoca. Anche noi staremo zitti nel momento in cui si tratterà
di affrontare le cose da fare, ma queste sono fatti accaduti in passato ed è
giusto portarli alla luce. Se il silenzio è luminoso ha un senso, i silenzi con
le ombre a me non piacciono neanche un po'». L'avvocato De Rensis è capace di
attaccare, ma si dimostra abile anche in fase difensiva. Quando gli chi chiede
se ha un'idea di chi abbia ucciso Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una
persona o più persone che fanno sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta
di persone fuori da questi giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi
esprimo. Non posso e non voglio». Più morbido all'ultima domanda: ma se la pm
Milocco, alla fine dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto,
quale sarebbe la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità
che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel
procuratore Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il
procuratore capo è un galantuomo e la dottoressa Milocco - che ho conosciuto da
poco - mi ha dato l'idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi...».
Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la
strada s’illuminerà da sola», scrive
“Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia del Pirata, parla
della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità sulla morte del
ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò l'ultima cena ricorda:
«Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ufficialmente per la
giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una stanza
d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza accidentale
di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo,
invece, la verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più
persone che lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose
di Rimini, forse dopo essere stato costretto a bere cocaina
disciolta nell’acqua. A parlare dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la
mamma di Pantani, Tonina Belletti, che ha provveduto a
presentare un esposto-denuncia per omicidio volontario
in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della
famiglia del ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere
di Sky racconta oggi di «mancanze», «lacune», «incongruenze»,
«anomalie», «accertamenti non fatti», che avrebbero condizionato la prima
inchiesta sulla morte del Pirata che risale a 10 anni fa e che fu chiusa a
tempo di record, in soli 55 giorni. Il legale, descrivendo la segnalazione alla
Procura, parla di «rilettura» di quegli «atti d’indagine e processuali» che
avrebbero determinato una verità giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà,
di una rilettura che contiene «elementi che convergono e vanno in una direzione
precisa» e opposta rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in
sostanza, la tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e
«mai più abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è
possibile che fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà
un’altra verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato
parlando della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale)
realizzata da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che
leggendo bene le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si
illuminerà da sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad
annunciare, su Facebook, la riapertura del caso
Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse
scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni
scorsi la madre del Pirata. «Non vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -.
Non mi sono mai sbagliata su Marco. Così come non credo siano stati gli
spacciatori». «Sono dieci anni – ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino
alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da
subito ho detto che me l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La
signora Tonina ha poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle
ultime ore di vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli
davano fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché
lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».
Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto
diversa da quella ufficiale”. Per
l'avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero condotte dieci anni fa
"presentano lacune e contraddizioni". Il legale ha ottenuto la
riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che indaga per
"omicidio volontario a carico di ignoti". La tesi della famiglia e
della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso, scrive
“Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla morte di Marco
Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente la
mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di Rimini.
Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De Rensis, che
spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha riletto e
analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il processo.
Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci anni fa sono
piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per un’overdose, ma venne
ucciso da una o più persone che il campione romagnolo conosceva e a cui lui
stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite. Il Pirata ebbe la peggio.
L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al ciclista una dose letale di
cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli investigatori condussero le indagini
su una messa in scena. Quelle certezze sono state messe nero
su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un esposto alla procura di
Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per dieci anni è stato riaperto per
“omicidio volontario a carico di ignoti”. “Mi limito a dire –
ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante
comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è tanto,
perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo emergere le
enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si poteva comprendere
facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui per arrivare a
ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con una ipotesi di
reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché
comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono
tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che la
verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis, avvocato
del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano lo sport
alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del
calcio scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è
suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato,
che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis
Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a
Roseto Capo Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un
suicidio poi è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo –
dice De Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice
acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di
pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il
lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e intrecciare
continuativamente con le analisi degli atti di indagine e processuali, a
confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini difensive che
sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno evidenziato elementi
importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la magistratura – precisa De
Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che dovevamo aprire una pagina nuova
sulla base di enormi lacune e enormi contraddizioni“. “Queste
lacune e incongruenze per noi possono essere colmate – conclude – possono
essere riviste e credo che questo sia un dovere morale, oltre che giudiziario,
da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme per riscrivere la pagina di quella
dolorosissima vicenda il più possibile vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore
anche Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini
che in albergo consegnò al campione romagnolo la sua ultima cena, un’omelette
di prosciutto e formaggio. Il Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo –
ha detto Laghi al Corriere della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le
occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del
viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima
di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo
per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla
spalla: ‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella
sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono
tutti puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi
sulla perizia del dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo
di Pantani «non sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi
relativamente alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei
luoghi». Il lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco,
cui è stato affidato il fascicolo dell’indagine bis, e
comincia senza che alcuna persona risulti indagata. Va ricordato che tre anni
fa la corte di Cassazione aveva assolto il presunto
pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del campione
vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce reato».
Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56
minuti, ma ne restano solo 51. Caso
Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia scientifica. Per i
pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una verità diversa sulla
morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive Fiorenza Sarzanini su
“Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel video della Polizia
scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una
diversa verità sulla morte di Marco Pantani. Riparte da qui la nuova indagine
avviata dalla procura di Rimini e si concentra su almeno sei anomalie
denunciate dalla famiglia del «Pirata» con l’esposto presentato dall’avvocato
Antonio De Rensis. Ricomincia da un’imputazione di omicidio volontario che non
sarà facile dimostrare a oltre dieci anni di distanza da quel San Valentino che
il ciclista trascorse nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche
perché la struttura alberghiera è stata completamente modificata, ma
soprattutto perché l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato
in quel bilocale e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per
fargli pagare uno «sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi
sfuggita di mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e
della sua totale dipendenza dalla droga. Ma - questo dicono alcune nuove
testimonianze - non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto
far credere. «L’ho trovato stanco ma lucido - ha raccontato Oliver Laghi, il
ristoratore che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al
prosciutto e formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che
voleva l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa
avvalorando la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo.
Il procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire
se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in
quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori
accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del
processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso - hanno patteggiato
condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi - c’è un video
girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45 del 14 febbraio
e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la durata in due ore
e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina prima dalla fine
dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono dei «salti» tra una
scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire le tracce più evidenti
di una ricostruzione diversa da quella ufficiale mostrando indizi evidenti per
accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo lasso di tempo di quel giorno,
Pantani non sia stato da solo. Ma anche per dimostrare quelle che appaiono
alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato della famiglia ha infatti denunciato
come nel fascicolo processuale non risulta la rilevazione di alcuna impronta
digitale durante il lungo sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti
mobili spostati, alcuni rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e
pendente dal soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato
mostra svariate dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani
aveva acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata
dal professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi
effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina in
quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e altra sia
rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che qualcuno l’abbia
portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di «costrizione a bere
cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile da dimostrare e che
probabilmente costituirà uno dei punti più controversi della nuova inchiesta.
Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti consumati da Pantani. Secondo
la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è l’omelette portata da Laghi. Per
l’autopsia Pantani ha invece fatto colazione, i resti vengono rinvenuti nello
stomaco. I dipendenti del residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non
ha mai lasciato l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto
a procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale
ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21 fosse
«possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere proprio
questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza essere
visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale non c’era
il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida; Pantani era
arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì c’erano tre
giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono gli stessi
inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto dovuto»,
hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E adesso dovranno
concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la relazione
medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle tracce di
sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi incompatibili
con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente stravolta dalla
cocaina.
Caso Pantani, depistaggi e buchi nell'indagine.
"Quando lo trovammo non c'era sangue". I racconti dei primi soccorritori contraddicono la
perizia fatta all'epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide
nelle sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e
Matteo Pinci su “La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie
divergenti e protagonisti dimenticati s'intrecciano intorno alle ultime ore di
vita di Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti
sembrano quasi sommarsi, alimentarsi uno con l'altro, accentuando i depistaggi,
le lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo
intervenne sul corpo dell'atleta, fino a quelli dei testimoni della primissima
ora. "Non c'erano tracce di sangue". Così lo raccontano i medici del
118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del residence Le
Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani sia stato trovato
riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una maschera rossa. La lettura
dell'esame autoptico rivela poi anche una serie di ferite sul corpo, sulla
fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi arriva per primo nella stanza D5
di viale Regina Elena, a Rimini, proprio non riesce a ricordarle: "Marco
non aveva alcuna ferita sul viso". Incongruenze curiose, come le divergenze
sulle macchie di sangue presenti nella stanza. Quegli schizzi secondo la
perizia del professor Avato allegata alle indagini condotte dal legale della
famiglia, Antonio De Rensis, non possono essere frutto della caduta. Non la
pensava così però il dottor Fortuni, il medico legale che condusse l'autopsia,
seppur 48 ore dopo il ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di
doverlo aspettare due giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto
tesi opposte anche sul caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del
Pirata: il primo consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l'altro
per la famiglia del giovane. Ma incollato come un'ombra al nome di Fortuni è
rimasto soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal
laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo del
cuore del campione di Cesenatico che rappresentava "un corpo di reato,
sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare né
perso né distrutto". Procedura non inconsueta, eppure oggetto di
attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo
raccontavano le indagini dell'epoca. Un ritratto che nasce dalle dichiarazioni
notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si presentano spontaneamente
alle 23.30 della notte di San Valentino per consegnare la loro verità sul
campione scomparso a un ispettore mentre nella stanza D5 del residence Le Rose
si muovono ancora inquirenti al lavoro e civili, filmati impietosamente
dall'occhio delle telecamere della polizia. Avevano incontrato Pantani, dicono,
la sera prima, sul pianerottolo, intorno alle 22.15. Avevano impiegato un po' a
riconoscerlo, poco curato, una barba sciatta. Lo avevano sentito dire cose
surreali, lo avevano salutato con un generico "a domani", salvo
sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto "non so se ci sarà un
domani per me". Visibilmente turbato, poco lucido e tragicamente inquieto,
quasi consapevole del proprio destino irreversibile. Testimonianza ritenuta
credibile al punto da essere inserita nella consulenza medico legale. Quella
testimonianza diventa l'elemento per dare coerenza alla tesi di un Pantani in
preda al delirio, quello che avrebbe potuto demolire la stanza del residence o
barricarsi in camera e drogarsi fino a morire. Apparentemente affermazioni
utili a raccontare lo sviluppo delle ultime ore del campione caduto. Eppure,
nessuno sentirà la necessità di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né
durante il procedimento giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi
perché, al contrario, durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a
nessuno di ascoltare se avesse qualcosa dire l'ultima persona che, con
certezza, ebbe occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a
pochi metri dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver
Laghi è il ristoratore a cui viene ordinata l'ultima cena del Pirata,
un'omelette prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal
concierge dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra
le 21 e le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito
all'epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. "Non aveva la
faccia di chi voleva suicidarsi", dice. Racconta che emozionato per
quell'incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che sarebbe
impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla spalla e
rispose "va bene, ci vediamo domani". L'esatto opposto di quello che
solo un'ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre
ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un'ora scarsa, Pantani
avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e uscire
dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie, perso in
discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo. Rimini parla,
racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi inizia a cercare
risposte.
Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al
telefono mentre Marco era già morto.
L'indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le 20. Il gelo del
magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte da zero: il
fascicolo affidato a una giovane pm, l'ultima arrivata nella procura.
Dall'esame dei tabulati l'ultimo mistero sulla fine del Pirata nel motel Le
Rose di Rimini.Il legale della famiglia: "Possibile colmare le
lacune", scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La
nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati
telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore
immediatamente successive all'omicidio di Marco Pantani, in quel tragico
pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima
triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso - vale a dire il fornitore e
lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) - e altri
numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c'era all'origine di quel
febbrile giro di chiamate rimbalzato nell'etere tra le 13 e le 20 di quel
giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due "pesci
piccoli" dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera
scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno tempi
lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina si è messa
in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva sulla morte di uno
dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori. Almeno questo è
l'intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli. "Abbiamo appena
ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto un'indagine. È un atto
dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario. Leggeremo le
carte, se ci sarà l'esigenza di indagini chiederemo al giudice". Le carte,
in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa settimana facendo in tempo
ad aprire il fascicolo "contro ignoti" e ad affidare l'inchiesta a
una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In procura - dove tutti si
nascondono dietro il più assoluto segreto istruttorio - nessuno sottovaluta la
difficoltà di un cold case del genere, con una vittima tanto famosa e amata,
uno scenario alternativo così suggestivo, e con dieci anni di distanza a
rendere tutto, se possibile, ancor più complicato. Basti pensare che il luogo
del delitto, semplicemente, non c'è più: il residence Le Rose, nella cui stanza
D5 venne ritrovato, il 14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato
demolito. E non è un dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria,
quella fatta a pezzi dalle indagini difensive condotte dall'avvocato Antonio De
Rensis, ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei
giorni dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria
chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte le
altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la massima
discrezione dal garage (non c'era nemmeno una telecamera di controllo).
Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e uscito dalla stanza
di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente venuta da Milano.
Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi eventuali assassini.
Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun sopralluogo. Ciononostante
la voglia di fare luce su un caso che da anni avvelena le acque di questa
piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo Gengarelli, il pm della prima
inchiesta, quella oggi sotto tiro ha rilasciato una dichiarazione non proprio
amichevole: "Io non commento la notizia, sono un magistrato con
l'abitudine di non parlare come dovrebbero fare in tanti, lascio che siano gli
atti a farlo". La scelta di affidare l'incartamento a un magistrato
"nuovo" dell'ambiente, lontano per definizione da ogni possibile
pressione locale non appare casuale. La strada dell'indagine a questo punto è
abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al ritorno dalle vacanze (ha chiuso
ieri l'ufficio portando con sé il fascicolo) avvierà i primi accertamenti,
delegando la polizia giudiziaria. Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore
delle accurate indagini effettuate da De Rensis e il suo staff è infatti la
perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato che ha parlato di
"ferite non autoprodotte, ma inferte da terzi" sul corpo di Pantani,
di "evidenti segni di trascinamento del cadavere", e della
"probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di acqua"
ritrovata sulla scena e "mai repertata". Elementi che, se confermati,
non lascerebbero più dubbi sull'omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto da
rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e perché
ha coperto l'assassino? Nell'istanza presentata da Rensis ci sono numerosi
altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste domande. E i
tabulati telefonici sono uno di questi. "Quando i genitori di Marco mi
hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non volevo creare
false illusioni ma non c'è voluto molto per comprendere che c'era molto lavoro
da fare - racconta l'avvocato De Rensis ai microfoni di Sky -. La stessa
consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso esplorativo ma abbiamo
capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con una rilettura della
vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni di tensione e
speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare insieme e mi
concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso, lungo, ma che
affronteremo con determinazione massima. La prima indagine? Penso al passato
soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su quello che dobbiamo
fare". L'esposto presentato, spiega De Rensis, "è una rilettura, un
esame degli atti di indagine e processuali, c'è una corposa e approfondita
consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una direzione molto
precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune, accertamenti non fatti e
una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Marco mai più
abbandonata e che credo vada invece assolutamente rivisitata". Ancora
nessuna pronuncia su possibili sospetti: "Iniziando a fare luce sulle
mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie, credo che la strada
si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e preciso. Il perchè certe
cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa le indagini avrà molti punti
da chiarificare e credo che questo sia assolutamente possibile. Colmare le
lacune credo sia possibile, le carte parlano molto, il video parla molto, leggendo
le carte nel modo giusto, leggendo il video e altri dati credo che sia
possibile colmare queste lacune". "Credo che adesso inizierà
un'indagine molto faticosa - conclude De Rensis - ma il procuratore capo di
Rimini è un galantuomo, la dottoressa Milocco mi ha dato l'impressione di una
persona molto rigorosa. C'è grandissima fiducia nell'opera della magistratura e
daremo il nostro piccolo supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la
verità fattuale prevalga su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla
verità dei fatti".
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
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