IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL
TIFOSO.
Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”,
un capitolo è dedicato alla vicenda Tavecchio ed alla tessera del tifoso.
Su questo Antonio
Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana
editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una
sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia
ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.
IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL
TIFOSO.
L'unico frutto del rancor è la banana... Tavecchio è il Mostro di Mezz’Estate per una
frase scema su calcio & banane, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”.
Non so chi sia questo Tavecchio, cos’abbia fatto nella vita e se meriti di
guidare la federazione calcio oppure no. Per ragioni onomastiche e
anagrafiche è forse incompatibile con l’era puerile di Renzi, ma non è di
vecchiaia che si parla. Lui è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema
su calcio & banane. Neanche una frase razzista, perché non
era quello lo spirito, solo cretina. Che in un paese maturo
dovrebbe concludersi con un giudizio: hai detto una scemenza, punto.
Nossignore. Per una specie demente o infantile di gioco dell’oca,
appena uno pronuncia la parola scorretta, anche a mezza bocca,
salta su il circo dell’inquisizione, una versione buffonesca del
Sant’Uffizio, lo porta alla gogna, lo massacra e lo caccia. È un sistema
che si ripete come un rito antropofago; se uno, per dire, ha vissuto
una vita degna e incensurata, ha fatto tante cose buone, ma una volta
allo stadio ha fatto buu, diventa per sempre, lapidato o sulla
lapide, «quello che ha fatto buu» e additato al pubblico disprezzo
eterno. Ci sono sui giornali dei serial killer che si occupano di far
fuori chi dice la parolina scorretta. «Hai toppato,sei entrato
nella casella sbagliata, e ci vai ind a’morte, ’a furtuna ’nzerra ’a
porte». Non si valutano mai meriti e demeriti, si sorvola su curriculum
disastrosi, danni ed errori, si può avere alle spalle una vita
fallimentare, da porco o da terrorista, ma la banana, ma la
banana...No, quella è peccato mortale, ti giochi tutto. Bestemmia
Dio e la Madonna, ma non nominare la Banana invano.
Carlo Tavecchio e la Repubblica delle Banane, scrive Mariateresa Nuzzi. Carlo Tavecchio, già
Vicepresidente e ora candidato alla Presidenza della FIGC viene criticato per
aver rilasciato la seguente dichiarazione razzista: «L’Inghilterra
individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare,
noi invece diciamo che Opti Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane,
adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve
dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree… ». A questo proposito
SKY TG24 lancia un sondaggio in cui chiede ai telespettatori di
pronunciarsi e di dire come la pensano sulla candidatura di Tavecchio alla
Presidenza: è giusto dopo questa affermazione, che Tavecchio diventi
Presidente? Tavecchio è adeguato? Facciamo una piccola incursione nella vita e
nella carriera di Carlo Tavecchio e cerchiamo di capire chi è
l’uomo che definisce i giocatori africani, dei mangia-banane. Ci aiuta in
questa operazione la sempre utile enciclopedia on-line Wikipedia, dalla quale
riporto questi estratti: “Esponente della Democrazia Cristiana, diplomato
in Ragioneria ed ex dirigente bancario presso la Banca di Credito Cooperativo
dell’Alta Brianza, all’età di 33 anni diventa sindaco di Ponte Lambro (suo
comune di nascita, in provincia di Como) conservando la carica per quattro
mandati consecutivi, dal 1976 al 1995. Nel 1974 è tra i fondatori della
Polisportiva di Ponte Lambro e, in ambito calcistico, per sedici anni diventa
presidente dell’ASD Pontelambrese, società dilettantistica che durante la sua
gestione arriva a disputare anche il campionato di Prima Categoria. La sua
carriera dirigenziale all’interno di Federcalcio inizia con l’incarico di
consigliere del Comitato Regionale Lombardia della Lega Nazionale Dilettanti
(LND) mantenuto dal 1987 al 1992, diventando poi nei successivi quattro anni
vice presidente della LND e venendo eletto nel 1996 al vertice del medesimo
Comitato Regionale Lombardia.
Il 29 maggio 1999, a seguito delle dimissioni del suo
predecessore Elio Giulivi a causa dell’affaire Rieti – Pomezia, è votato
presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Dal maggio 2007 diventa vice
presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio assumendone la funzione di
vice presidente vicario nel 2009. Durante la sua pluridecennale carriera, Tavecchio è stato anche consulente del Ministero
dell’Economia per le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla
sfera dell’attività sportiva dilettantistica e componente della Commissione
Ministeriale, presso il Ministero della Salute, per le problematiche
dell’impiantistica nazionale. Inoltre nel biennio 2002/2004 riceve la nomina di esperto in materia di
problematiche riferite al calcio dilettantistico e giovanile e ai campi in erba artificiale e, dal
2007, viene designato dall’Uefa membro effettivo della Commissione per il
calcio dilettantistico e giovanile. Scrive anche un libro per spiegare il
calcio ai più piccoli, dedicandolo alla nipote Giorgia, dal titolo «Ti
racconto… Il Calcio». È tifoso dell’Inter, squadra di cui è stato anche membro
del consiglio di amministrazione sotto la gestione di Massimo Moratti. Carlo Tavecchio è stato processato e condannato
cinque volte. È stato
condannato a 4 mesi di reclusione nel 1970 per falsità in titolo di credito continuato in concorso, a 2 mesi e 28 giorni di reclusione nel 1994 per evasione fiscale e dell’Iva, a 3 mesi di reclusione nel 1996 per omissione di versamento di ritenute previdenziali
e assicurative, a 3 mesi
di reclusione nel 1998 per
omissione o falsità in denunce obbligatorie, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per abuso d’ufficio per violazione delle norme
anti-inquinamento, più
multe complessive per oltre 7.000 euro.” Ora, anche tralasciando le condanne, che a me qualche
dubbio sulla sua adeguatezza me lo farebbero venire, non posso fare a meno di
chiedermi come si possa ricoprire una carica così alta, una posizione che dovrebbe
essere super partes per eccellenza, che dovrebbe dare continuo esempio
in senso antirazzista, di fairplay, di onestà e di trasparenza, quando poi si
decide di esporsi pubblicamente con una frase dai potenti connotati
razzisti. Significa forse che quest’uomo non ha la minima idea del ruolo
che vorrebbe ricoprire? Oppure vuol dire che non si rende conto della gravità
delle sue parole? O forse crede che chi lo ascolta non faccia caso a quello che
dice? Quando si è accorto che invece lo si ascoltava eccome, tanto che anche la
stampa estera gli ha dedicato qualche riga, allora è corso a
scusarsi agli stessi microfoni della sopracitata dichiarazione. Sostiene che
non abbiamo colto il succo del suo discorso, quello dei mangiabanane
non è il punto, lui si riferiva alla professionalità, che c’entrano ora queste
banane? «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine, e
comunque mi riferivo al curriculum e alla professionalità richiesti dal calcio
inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi».
Problemi di memoria? Sarà perché sei Ta-vecchio? Io vorrei tanto fargli questa
domanda: che tipo dovrebbe essere il Presidente della FIGC secondo lei?
In attesa di una sua risposta voglio provare ad immaginare un Presidente che
parla ai microfoni assolutamente senza filtro. Uno che da tifoso, il giorno
della sconfitta dell’Inter contro la Roma – faccio un esempio – dichiari robe
del tipo: “Questi romani coatti e mangia trippa hanno avuto solo fortuna!”. Ma
poi non riesco a smettere di domandarmi: come può un uomo con il suo curriculum
vitae pronunciare una frase del genere? Forse basterebbe solo rivoltare la
domanda: come può uno che pronuncia una frase simile, aver fatto tanta
strada? Insomma, siamo sempre più la Repubblica delle Banane e la
nostra classe dirigente vanta persone come Carlo Tavecchio.
Tavecchio è il degno numero uno del calcio italiano,
scrive Massimiliano Gallo su Il Rottamatore. C’è una premessa fondamentale da
fare: la politica è sangue e merda. E su questo assunto, siamo tutti più o meno
d’accordo. E il calcio, lo sport, la gestione dello sport è politica. Non
altro. Non averlo compreso, continuare a recitare il ruolo della bella
addormentata del bosco non fa onore alla nostra intelligenza. Lo sport è
business. Punto. Non c’è nemmeno più bisogno di specificarlo. Sì, ogni tanto,
ogni quattro anni a voler essere precisi, il mondo finge di commuoversi per
storie ai confini delle realtà, come quelle dei tiratori al piattello, dei
lottatori che conquistano medaglie d’oro alle Olimpiadi e si guadagnano il loro
meritatissimo quarto d’ora di celebrità. Ma sono fette sempre più marginali di
una torta che è giustamente farcita di denaro. De-na-ro. Il resto è menzogna
decoubertiniana che qualcuno di buona volontà ancora prova, in maniera
encomiabile, a insegnare ai bambini. Fatta questa doverosa premessa, e aggiunto
che il nostro business calcistico è ormai un business di serie B (nemmeno da
alta classifica in serie B), possiamo dire che la cagnara sollevata per
l’inqualificabile uscita di Carlo Tavecchio è la solita chiassosa sceneggiata
ipocrita all’italiana. Di che cosa ci stupiamo? Che uno dei più longevi
dirigenti del nostro calcio definisca mangiabanane extracomunitari sconosciuti
che vengono a giocare da noi? Davvero? E dove eravamo quando uno dei più
autorevoli signori del calcio italiano, un certo Adriano Galliani,
signorilmente invitò Boateng a non uscire più dal campo per protesta contro i
buu razzisti del pubblico avversario? Nessuno disse nulla, allora. Si
infiocchettò la pillola. Galliani aveva parlato col solo scopo di non dare
ulteriore risonanza a quattro razzistelli. Finì che al termine della stagione,
Boateng ha lasciato il Milan ed è andato a giocare in Germania. In Spagna,
invece, quelli del Villarreal hanno impiegato non più di due giorni per
individuare il lanciatore di banane a Dani Alves e bandirlo per sempre dallo
stadio. È una questione di senso civico. È il termometro della civiltà di un
Paese e dei suoi abitanti. Per carità, le malattie possono essere curate, anche
con terapie shock. Ma allora vanno intraprese. Subito. Il calcio italiano o la
nostra politica si è fermato un attimo a ragionare dopo che i calciatori della
Nocerina si accasciarono in campo fingendo malori perché i lori tifosi li
avevano minacciati di non giocare? Non ricordiamo. Così come non ricordiamo un
dibattito, un convegno, una presa di posizione del governo per i cori razzisti
che da anni infestano i nostri stadi. E sorvoliamo sul nulla che il governo
Renzi ha prodotto dopo gli incidenti di Roma e la morte di Ciro Esposito. Ci
limitiamo a tre esempi, ma potremmo proseguire per pagine e pagine. Il calcio è
business. Di serie B. L’elezione del presidente della Federcalcio – così come
di tutte le poltrone sportive – è una battaglia politica. Ci sono in gioco quei
quattro spiccioli che ancora versano le tv. E quegli incarichi di sottogoverno,
quelle piccole “amicizie” che un presidente amico può garantire. Parliamo di
poca roba, eh. Nulla che cambi il mondo. Ma il calcio italiano non ha la
pretesa di farlo. Abbiamo perso dal Costa Rica ai Mondiali e ancora pensiamo di
essere il centro del mondo. Non ci calcola più nessuno. Il giocatore più forte
della serie A è un signore che in Inghilterra manco giocava più: Carlos Tevez.
Qui vengono professionisti a fine carriera oppure in cerca di un improbabile
rilancio. Allo stadio non ci va quasi più nessuno perché gli impianti fanno
schifo ed è anche pericoloso. Sia chiaro, sarebbe così anche con Demetrio
Albertini presidente. Pensate davvero che con lui possa cambiare qualcosa?
Ovviamente è più presentabile, per carità. Non ha mai definito mangiabanane
nessuno. Ma nemmeno con lui il nostro calcio diventerà uno sport come lo è in
Inghilterra o in Germania. È solo una guerra di potere che Roma e Juventus
(sostenitori di Albertini, cui ora si è aggiunta la Fiorentina) hanno perduto.
Magari alla fine i sostenitori di Tavecchio si arrenderanno alle pressioni
esterne – il mondo è tornano a indignarsi, come ai tempi di Berlusconi. Ma non
avverrà prima di trovare nuovi equilibri. Perché tra qualche giorno il mondo
dello sport penserà ad altro, e vuoi che un Lotito, un Galliani o un De
Laurentiis rinuncino a piccole prebende in cambio di una posa nello spot
“Respect” contro il razzismo? Suvvia, sembriamo tanti Pancho Pardi. La purezza
ora la vogliamo dal calcio. Meglio Tavecchio, la sua faccia ci ricorderà chi
siamo. Senza illusioni destinate a rimanere tali.
Banane & pallone. Un boiardo immortale alla Figc.
Potere e amicizie, know-how e grane giudiziarie. Ecco il regno del supermanager
Carlo Tavecchio, scrive Marco
Fattorini su “L’Inkiesta”. «È vero, ho 71 anni. Che cosa devo fare? Devo
ammazzarmi?». Quella che fino a pochi giorni fa rappresentava la critica
principale rivolta al futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio è
stata rispedita al mittente dal diretto interessato. Eloquio informale e piglio
decisionista. «Questo è un Paese addormentato, io ho voglia di fare e di tenere
sveglia la gente, il calcio è da salvare». Poi però la bufera si è spostata
dalla questione anagrafica a quella razziale, dopo che all’assemblea della Lega
Dilettanti Tavecchio ha dichiarato: «L’Inghilterra individua dei soggetti che
entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che
“Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella
Lazio e va bene così». A molti non è andato bene. Nel giro di qualche ora monta
l’indignazione di tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Nasce un caso
politico. Gaffe o razzismo? Un fronte trasversale chiede a Tavecchio di
ritirarsi dalla corsa (già vinta) alla poltrona della Federcalcio. Se per i
famigerati «cori territoriali» si chiudono le curve degli stadi, viene da
domandarsi quale provvedimento ricorra per la frase pronunciata da un
rappresentate istituzionale. Scendono in campo parlamentari e giornalisti,
osservatori accorti e critici dell’ultim’ora. Gli attacchi del Pd e la difesa
di Forza Italia. Dalla «forte irritazione» del sottosegretario allo Sport
Graziano Delrio alla chiosa del premier Matteo Renzi: «Espressione
inqualificabile, un clamoroso autogol». Mentre il vicepresidente della Camera
Roberto Giachetti auspica che «se Tavecchio non rinuncia spero non sia eletto»,
il grande accusato rilancia: «Accetto tutte le critiche, ma non l’accusa di
razzista perchè la mia vita testimonia l’esatto contrario. Se sarò eletto
presidente, la federazione condurrà una politica fattiva contro ogni discriminazione».
La tempesta lo piega ma non lo spezza. E i suoi grandi elettori del mondo
pallonaro, con poche eccezioni, lo seguono in un silenzio assordante. Ma
l’esternazione sulle banane, pur traballante in un contesto falcidiato da
ordine pubblico e cultura sportiva, non può essere la sola causa
dell’«inadeguatezza» che più di qualcuno addebita a Tavecchio. Non bastano
nemmeno le dichiarazioni “genuine” sulla rosa dei papabili ct azzurri: «Conte?
Mai visto. Quello delle Marche, come si chiama? Ah, Mancini. Non conosco
nemmeno lui. Quell’altro del Friuli? Sì, Guidolin. Non ho ancora deciso,
comunque mi occuperò di questo bordello». Fuori dal palazzo c’è chi non gli
perdona il fattore anagrafico e la lunga esperienza prodiga di conoscenze in
Figc. «L’uomo sbagliato al posto sbagliato». Agli occhi dei detrattori
Tavecchio diventa emblema della continuità e del potere costituito. Per dirla
con Aldo Grasso «è il trionfo dello status quo e il candidato ideale per non
cambiare nulla». E l’uscita infelice sul misterioso Opti Pobà viene digerita
come una sorta di dichiarazione programmatica. Classe 1943, «educazione
brianzola» e cultura del lavoro sin dal primo impiego all’età di 19 anni. Ex
dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, Tavecchio nasce a Ponte
Lambro, comune di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al
1995. Scuola diccì come quella del predecessore Giancarlo Abete, deputato
forlaniano per tre legislature. Ma la scalata sportiva del manager brianzolo
comincia con la presidenza della Pontelambrese e nel 1987 prosegue con
l’ingresso al consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti. Nel
1996 approda a capo del comitato regionale, mentre la poltrona di presidente
nazionale gli arriverà nel 1999, inizio di un regno longevo. Dal 2007 Tavecchio
è pure vicepresidente della Figc e due anni dopo diventa il vicario di Abete.
Nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in
commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla
nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”. Solidi contatti, amicizie importanti
e grinta da vendere in un Palazzo dalle mille correnti. Gli endorsement del
«poltronissimo» Franco Carraro e di Antonio Matarrese. La stima dell’ex Coni e
oggi uomo Cio Mario Pescante. Le sponde del vicepresidente Figc Mario Macalli e
del kingmaker della Lega Calcio Claudio Lotito. In via Allegri Tavecchio è
considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del
pallone. Il know-how che gli riconoscono deriva dai quindici anni al comando
della Lega Nazionale Dilettanti, con lui realtà consolidata e cassaforte
strategica di consenso. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd
e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il Paese reale del pallone
italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a
quella amatoriale e ricreativa, 15mila società e 70mila squadre impegnate in
700mila partite stagionali per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro tra
tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che
la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano». Nel percorso coi
dilettanti emerge la questione dei campi sintetici delle società, che devono
essere omologati. Nella Lnd c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli,
pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di
Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica
della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi? Interpellato da Report,
Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e
vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in
Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne
sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Ma i critici puntano la lente d’ingradimento
anche su un altro aspetto. A margine della sua candidatura alla Figc è tornata
a circolare un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo
Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono
ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato
per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco
del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio - si legge
nell’interrogazione - annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni
ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I
provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di
credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione
dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso
versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità
in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la
tutela delle acque dall’inquinamento». Il curriculum giudiziario ha fatto
mormorare più di qualcuno prima che il diretto interessato, rispondendo agli
articoli de La Repubblica e Il Fatto Quotidiano,
chiarisse la questione. «Le condanne - spiega Tavecchio - si riferiscono a
fatti accaduti dai 50 ai 25 anni fa, e si riferiscono a situazioni nelle quali
sono stato coinvolto esclusivamente in funzione della posizione che ricoprivo,
e non come autore delle omissioni contestate, compiute invece da terzi». Le
condanne non sono menzionate nel casellario giudiziale, Tavecchio ha goduto
della riabilitazione e il certificato penale «è immacolato». Fa sapere anche
che prima di candidarsi alla Lnd chiese alla Corte Federale se fosse idoneo a
ricoprire la carica in questione. Risposta affermativa e caso chiuso. Oggi la
nuova avventura si chiama Federcalcio. Dopo il tracollo azzurro in Brasile e le
pressioni dell’opinione pubblica per azzerare tutto, lui è già a bordo campo
con l’esperienza di chi del pallone conosce il giorno e la notte. Con buona
pace di rottamatori e quarantenni, la candidatura di Tavecchio procede rapida e
ben oliata. Dall’inizio può contare sui voti della Lega Pro dell’amico Macalli,
oltre che sul serbatoio della sua Lega Dilettanti. Solo con queste due componenti
Tavecchio veleggia al 51% garantendosi l’elezione virtuale. La percentuale
stana gli scettici e scoraggia chi tra i grandi elettori era rimasto alla
finestra per esplorare candidature alternative. Albertini è minoritario in
partenza, le componenti tecniche (Assoallenatori e sindacato dei calciatori) e
gli ammiccamenti di un gruppetto di club di serie A non bastano. Volenti o
nolenti, quasi tutti convergono su Tavecchio perchè è meglio l’accordo col
futuro capo che lo scontro ideologico. Arriva l’ok della serie B di Abodi,
mentre la A torna all’ovile grazie alla regia di Lotito. Diciotto squadre su
venti (Juve e Roma) decidono di appoggiare il presidente Lnd e di queste almeno
sei lo fanno dopo aver abbandonato Albertini. Che qualche giorno prima era stato
filosoficamente accantonato da Lotito in un’intervista al Foglio.
«Kant - spiegava il presidente della Lazio a Salvatore Merlo - dice che ce
stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che
appare, il noumeno invece è la realtà. Ecco Albertini è kantianamente un
fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia
esperienza manageriale». Dalle parole ai programmi. Quello di Tavecchio è
ambizioso, conta undici punti sovrastati dallo slogan “Il gioco del calcio al
centro dei nostri pensieri”. Dice che non scenderà a compromessi. Parla di
revisione della governance federale, lotta contro la violenza, riqualificazione
del prodotto calcio, rilancio del Settore Tecnico e sviluppo dei Centri di
Formazione Federale, ripensamento del Settore Giovanile e Scolastico,
miglioramento della comunicazione, maggiore interlocuzione con Governo e Coni,
autoconsistenza finanziaria e riforma dei campionati. Tavecchio propone pure
l’abolizione del diritto di veto portando dal 75% al 65% la soglia per cambiare
lo statuto. Circostanza che trova lo sbarramento delle componenti tecniche
(calciatori e allenatori) che non a caso tifano Albertini e vogliono continuare
a pesare in consiglio federale. Pazienza, Tavecchio tira dritto. Liquida il
quarantenne Albertini con un paio di battute in conferenza stampa, risponde per
le rime a Barbara Berlusconi e Andrea Agnelli che tifavano rottamazione. Evita
il politichese, ma non si lascia scalfire dal putiferio politico del
post-banane. Boiardo di lotta e di governo, la corsa alla Federcalcio non è un
pranzo di gala.
Il “caso Tavecchio”, ennesima riconferma della follia
in cui siamo scivolati.
In un Paese che va a rotoli e dove la moralità più elementare è stata uccisa e
sepolta da tempo, si scatena l’indignazione conformista per una frase che, al
più, può essere considerata come una battuta infelice. Siamo al di là
dell’ipocrisia, siamo alla demenza. E poi, cerchiamo di capire chi sono i veri
razzisti, scrive Paolo Deotto su “Riscossa Cristiana”. Premetto che non conosco il signor Carlo Tavecchio e
che non seguo il gioco del calcio da decenni. Ma sento verso di lui
un’istintiva solidarietà, perché lo vedo vittima di questa strana demenza che
ha ormai investito come un uragano la nostra povera Italia. Ordunque, pare che
il sig. Tavecchio, aspirante alla presidenza della Federcalcio, lamentandosi
per la facilità con cui le nostre squadre assumono giocatori stranieri che alla
prova dei fatti sono schiappe, abbia detto questa terribile frase: “Le
questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro.
L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per
farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima
mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Lo
dicevo prima, non seguo il calcio e quindi non so se questa valutazione di
Tavecchio sia corretta. Ma non so neanche quale crimine abbia commesso, solo
perché ha voluto “caricare” il suo discorso con l’esempio estremo di un
selvaggio chiamato a giocare nella Serie A. Ha detto una battuta infelice? Può
darsi, ma mi ricorda molto un “caso” di anni fa, di un generale che era stato
oggetto di critiche feroci perché, per deprecare il comportamento di alcuni
soldati che avevano danneggiato la loro caserma, aveva usato un linguaggio,
appunto, “da caserma”, ossia un linguaggio non delicato e politicamente
corretto, ma che andava subito, senza alcuna delicatezza, al nocciolo del
problema. Il caso del generale è di alcuni anni fa; il tempo è passato e l’ipocrisia
è aumentata, fino a divorare anche il cervello degli ipocriti, che hanno perso
del tutto il senso della misura. Siamo alla demenza. Per una frase, ripeto, al
più infelice, si è scatenato il coro perbenista, che comprende ovviamente ormai
più o meno tutti. Ne parlano esponenti politici, giornalisti, addirittura ieri
su Zenit, agenzia cattolica di informazione, leggo che una “Fondazione Giovanni
Paolo II per lo sport” straparla di un dirigente calcistico “pronto a
calpestare la dignità umana degli atleti”. Un’angosciata Giovanna
Melandri invoca: “Fermatelo!” (ma dove stava andando?); il PD trova compattezza
nel chiedere che Tavecchio si ritiri dalla corsa alla presidenza della
Federazione; Cecile Kyenge non perde l’occasione per far sapere che esiste ancora
e dichiara che Tavecchio “ha il tipico atteggiamento paternalistico nei
confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare”. Il meccanismo è sempre
quello. Quando la Voce del Padrone indica la vittima contro cui accanirsi,
inizia la gara a chi è più severo, implacabile. Nessuno vuole restare fuori dal
coro che da la garanzia di essere politicamente corretti e di poter quindi in
futuro partecipare, a seconda dei livelli ricoperti, al banchetto o almeno alla
merendina di regime. Poi il colpevole, dopo un processo in cui giustamente gli
sarà negato il diritto alla difesa, perché è uno sporco razzista, verrà portato
al patibolo, appeso alla corda tra gli applausi democratici e poi si potrà
iniziare anche a sputare sul suo cadavere. I giustizieri torneranno a casa
appagati. Certo, quest’ultima descrizione è di fantasia, ma è la strada su cui
ci si avvia se non si recupera un minimo di capacità di discernimento. In
quest’orgia di moralismo, è impossibile non pensare che la cosiddetta “società
civile” (per inciso, non ho mai ben capito cosa voglia dire, visto che di
“civile” è rimasto ben poco) ogni giorno ammazza senza alcun turbamento circa
300 bambini (si chiama aborto, anzi IVG, che sta per interruzione volontaria di
gravidanza. Così è più delicato); progetta allegramente le fecondazioni in
provetta, riducendo l’uomo a un animale e preventivando senza alcun scrupolo la
distruzione di altre vite umane (la fecondazione extra corporea nasce per la
selezione delle razze negli animali da allevamento); tiene in gran conto, e tra
poco legittimerà, l’eutanasia, ottimo sistema per liberarsi dal peso di vecchi
e malati; promuove le perversioni sessuali, insegnandole fin dalla scuola
materna, mentre non fa nulla per aiutare la famiglia, l’unica famiglia
esistente; lascia nella miseria e nella disperazione tante famiglie in cui non
si riesce più a tirare la metà del mese, perché c’è chi ha perso il lavoro, c’è
chi non lo trova, c’è chi, disperato, si toglie la vita. E così via. Una
società allo sbando morale completo, fiera e tronfia del suo relativismo, si
rotola nella disperazione e nel disastro, e poi si crea le nicchie di moralità
contro uno dei nuovi mostri: il razzismo! Insieme all’evasione fiscale e
ovviamente alla cosiddetta omofobia, il razzismo è uno dei mostri da
combattere. Scusate, dimenticavo la mafia, lì c’è addirittura la scomunica. Gli
altri? Beh, vedremo; per ora occupiamoci di questi, siamo sicuri che avremo il
consenso dei salotti buoni. È razzista un uomo perché pronuncia una frase come
quella detta da Tavecchio? Ma per favore, cerchiamo di essere, se non seri (non
pretendiamo troppo), almeno non ridicoli. E se proprio vogliamo parlare di
razzismo, sentimento quanto mai deprecabile, allora facciamo il punto.
Anzitutto vorrei togliermi una curiosità personale: per quanto sforzi abbia
fatto e faccia tuttora non sono mai riuscito a capire perché se dico “negro”
(traduzione del latino “niger”) sono razzista, mentre se dico “nero” sono bravo
e buono. Mistero. Ma questi sono dettagli. Piuttosto vorrei chiedere: chi è il
vero razzista: un Tavecchio che dice una frase infelice, o chi favorisce
un’immigrazione indiscriminata di negri o bianchi che siano, per mostrarsi
bravo e buono e così non fa altro che dare false speranze a masse di disperati,
che approdano in un paese che non è più in grado di dare lavoro e pane nemmeno
ai suoi cittadini? Non sono razzisti questi ipocriti che si fanno belli con
operazioni come “Mare Nostrum” (con tutto il rispetto per i militari, che
devono eseguire degli ordini), vero festival dell’incoscienza più totale, che
spinge ogni giorno centinaia (o migliaia) di disperati a mettersi in mare e a
trovare spesso la morte? Non sono razzisti questi predicatori dell’accoglienza
– purché la facciano al solito “gli altri” – che usano queste moltitudini di
immigrati, negri o bianchi o gialli che siano, per auto premiare la loro
incommensurabile bontà? Bontà costruita sulla sofferenza e sulla pelle degli
altri. Signori, smettiamola di dire idiozie a ruota libera. O siete ipocriti o
siete ormai del tutto fuori di testa. Il vostro buonismo demente – buonismo a
senso unico, perché quando volete essere spietati sapete esserlo perfettamente
– è vero razzismo. I poveri, i diseredati, i negri che fuggono disperati dalle
loro terre, e che voi imponete di accogliere a occhi chiusi, sono la vostra
merce per abbellire la vostra immagine. Promettete ciò che sapete di non poter
mantenere, incentivate col vostro cinismo i cinici mercanti di carne umana e
poi vi permettete di dare lezioni di morale a un uomo che ha detto una frase
infelice? Avete creato tutte le condizioni perché gli italiani, che razzisti
non sono mai stati, lo diventino ora, di fronte allo spettacolo di città invase
da immigrati che si trovano a vivere alla disperata e alla fine, fatalmente, per
delinquere. Meraviglioso risultato della misericordiosa accoglienza fatta alla
cieca, senza mai chiedersi dove e come sistemare tanti sbandati, profughi,
rifugiati e anche tanti personaggi che magari sono fuggiti dai loro paesi
semplicemente perché delinquenti. Ma a voi che ve ne frega? Voi li avete
accolti, quindi siete buoni e bravi e democratici. Signor Carlo Tavecchio, non
la conosco, non so cosa lei faccia, se lei sia o meno adatto a ricoprire la
posizione di presidente della Federcalcio. So che lei ha detto una frase, una
frase forse infelice o goliardica. Punto e basta. So che la stanno mettendo in
croce per questa sciocchezza. Anche lei è una vittima di quest’orgia di
ipocrisia ormai sfociata nella demenza. Non se la prenda, questa è l’Italia
attuale, retta dai soloni di una ex-sinistra smarrita e di una ex-destra che
cerca di sopravvivere scimmiottando le scemenze della ex-sinistra. È vittima di
questa Italia dove i politici ormai hanno fuso il cervello e la Chiesa
cattolica è preoccupata di non dare seccature a nessuno e pronta ad accodarsi
al coro del politicamente corretto. Signor Tavecchio, lei ha tutta la nostra
simpatia e solidarietà.
In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite
sull’affaire banane, scrive Francesco
Maria Del Vigo su “Il Giornale”. L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il
suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della
Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le
lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza
sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti
che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che
Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca
titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare
alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito
Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide
Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si
pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei
commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche
divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice
battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga
serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non
era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non
pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di
lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una
battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di
un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno
una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso
a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa
dittatura del politicamente corretto. Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai
incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono
decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo
dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il
sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso
trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti.
Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito
salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da
bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per
aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia,
del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello
della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e
dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità
in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis
Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa
che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita
decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le
unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi
quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare
la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le
battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è
scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.
Calcio, zingari e l'ipocrisia del vocabolario. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero
democratico dotato di senso dell'umorismo, se dai del banana a un africano sei
un grandissimo bastardo, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Il nostro
eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose
giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in
una società nella quale l'unico settore che non cala, bensì cresce, è la
chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile,
evidentemente la vecchiaia è considerata un'infamia. Chiedo scusa se mi cito.
Su Twitter - la palestra dell'insulto elevato a categoria del pensiero - vi
sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d'accordo con me, non si
limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite
alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto
vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la
variante è «brasato»). La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari
correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano
«vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il
sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere
impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia
vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un'ottima digestione.
Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione
italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso
concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati
hanno giudicato infelice. Questa, all'incirca: «Nel nostro Paese i club
pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi
modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è
trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente
si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più
diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su
giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici.
Dal che si evince che c'è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei
un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se, viceversa, dai del
banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo
delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile. Mi domando:
come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o,
meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente
e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero
bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per
allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina
accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un'automobilina
di latta. Se non ricordo male, c'era tra quel bendidio anche qualche carruba:
forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso,
rende l'idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante. Ecco.
Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi
per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un
vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non
appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e
ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto
all'Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana
all'inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di
culo). Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per
me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo
il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma
sull'involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono
malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul
Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l'avessi mai fatto. Le penne di lusso,
su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del
Corriere mi crocifisse. L'Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto
sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo
dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l'articolo che difendeva i
poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri».
Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento
disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E
come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la
nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini
non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori
ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma
ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali
anche se non sentono: meritano l'appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo
così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti.
E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso
etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in
imbarazzo. Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento
ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato
per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il
nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all'Africa e le
chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori.
Anche all'estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo.
Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i
soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare
zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i
primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.
Italiani ipocriti, come se il problema del calcio
fosse solo una banana.
La follia dell’accesso allo stadio in Italia: storia di
una domenica pomeriggio qualsiasi, scrive Leonardo Daga. E’ mattina presto, è
la befana. Non cerco vicino un camino che non ho se ho regali nella calza,
cerco solo le mie cose per proteggermi da un freddo che non ci sarà e partire
alla volta di Parma. C’è una partita, Parma-Toro, che il Toro perderà
meritatamente, ma non è questo il punto. Io parto da una località sulla costa
Marchigiana, 390 Km di autostrada destinazione Parma, appuntamento con i miei
amici di Roma nei pressi di Bologna per andare insieme allo stadio. A loro
tocca percorrere circa 460 Km. Non ci spaventa. Non abbiamo i biglietti, la
società che li emette ha chiuso l’emissione negli ultimi giorni per motivi non
precisati, anche ai detentori della tessera del Tifoso. Abbiamo deciso di andare
lo stesso, come l’anno scorso faremo i biglietti per la curva dei tifosi locali
e poi ci faranno entrare lo stesso nel settore ospiti… tipica follia italiana.
Arriviamo un’ora prima al casello, la polizia ferma le macchine e ci costringe
ad entrare in un parcheggio nei pressi del casello di Parma. Dobbiamo prendere
un autobus per arrivare allo stadio, per motivi di sicurezza e perché nei
dintorni dello stadio non ci sono abbastanza parcheggi per le macchine. Non ci
scomponiamo, siamo abituati in quanto tifosi a questo essere trattati da
extracomunitari appena approdati a Lampedusa. Aspettiamo pazienti, non siamo
tifosi turbolenti come gli steward dicono essere i tifosi dell’altra squadra di
Torino. Ma passa il tempo, molto tempo. Mezz’ora ad aspettare, ci giungono voci
di file ai botteghini, incomprensibili. Ci chiedono quanti di noi non hanno il
biglietto, pensiamo che sia perché ce li vogliono mettere da parte in
biglietteria, ma non è per questo. La polizia che fa i fatti propri, noi che ci
lamentiamo ma cerchiamo di mantenere la calma. Si parte finalmente. Lo stadio è
al centro della città, la città viene bloccata al passaggio dei tifosi, un
servizio di almeno 6-7 poliziotti ci fa da scorta manco dovessimo recarci ad un
penitenziario. Arrivo allo stadio. Ci rechiamo alla biglietteria sotto il
settore ospiti. I biglietti sono in vendita solo per i possessori della tessera
del tifoso. Bisogna andare alla biglietteria della tifoseria locale. E’ una
follia. Corriamo, una lunga fila si prospetta davanti a noi, per la maggior
parte tifosi del Parma, la fila avanza lenta perché i terminali funzionano male
o gli operatori non sono sveglissimi. Inizia la partita, noi abbiamo ancora una
ventina di persone davanti a noi. Ci giunge notizia del gol di Immobile, è il 20′
minuto. Siamo contenti per il risultato ma siamo ancora fuori, ancora 6-7
persone davanti a noi. Facciamo finalmente il biglietto, è il 30′ minuto, ci
chiedono il documento ma non il codice fiscale, quindi praticamente il
controllo riguardo ai diritti di accesso è nullo. Facciamo il biglietto per la
curva del Parma perché non si può fare il biglietto per la curva ospiti, ma poi
corriamo in quella ospiti e ci fanno entrare lo stesso. La partita non è stata
un granché, il Toro viene recuperato e sorpassato come succede spesso negli
ultimi anni a Parma, ma non è questo il punto. La partita allo stadio è solo
uno spettacolo ma i tifosi vengono trattati come se fossero dei criminali.
Qualcuno dovrebbe chiedersi se questa è la ragione per cui molta gente smette di
andarci. Qualcuno dovrebbe chiedersi quanto i comuni che ospitano queste
manifestazioni perdono economicamente perché la tifoseria ospite viene trattata
come un bagaglio scomodo da fare entrare ed uscire velocemente dalla città
piuttosto che ospitarla a dovere e promuovere l’immagine della città. Qualcuno
dovrebbe chiedersi questo, non solo i politici locali, anche gli stessi
responsabili (all’interno del club) dei rapporti con le tifoserie. Soldi e
opportunità buttati al vento, in città italiane che avrebbero tanto da offrire
e che invece mostrano solo sbarre e polizia.
Caro Direttore, (scrive Giuseppe di Paola a Xavier
Jacobelli) conosciamo tutti le traversie che sta passando il nostro calcio, a
livello sportivo e dirigenziale. Eppure tutti i disastri letti ed
ascoltati in questi giorni non sono nulla rispetto a quanto mi è capitato la
settimana scorsa. Vado a rinnovare l'abbonamento della mia squadra del
cuore, armato di personale Tessera del Tifoso, modulistica, autorizzazioni e
visti che manco andassi in guerra. Con l'occasione, e sfidando i rimbrotti
della mia famiglia, penso sia arrivato il momento di regalare il primo
abbonamento a mio figlio, che a 9 anni comincia ad appassionarsi al calcio. Mi
piace l'idea di tramandare la passione, come mio nonno e poi mi padre
hanno fatto con me. Altra modulistica, documento d'identità, segnalazione
delle generalità dell'accompagnatore, ma ... la signorina del box office
mi chiede: "Dov'è la Tessera del Tifoso del bambino?". "Come,
scusi? Ma è un bambino di 9 anni, che Tessera del Tifoso dovrebbe avere? Le
garantisco che non ha carichi penali". "Mi spiace, ma l'abbonamento
si carica nel chip della Tessera del Tifoso, ed in mancanza di questa
non posso fare a suo figlio alcun abbonamento". Ma come, i bei
discorsi sull'avvicinare le famiglie allo stadio, riempire le curve di bambini
appassionati che saranno la nuova linfa dello sport ... Tutte balle.
Obbligare un bambino ad avere la Tessera del Tifoso è spregevole. Chi
ha generato questo mostro giuridico non ha mai messo un piede allo stadio, e se
l'ha fatto è per andare dritto in Tribuna Elite, con tanto di scorta.
Vergogna. Altro che banane. Un papà deluso e scoraggiato.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
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