ANTIMAFIA
RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?
Dici Calabria
o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.
Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA
DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA
RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.
Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e
sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del
Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente.
Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia
meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.
Quando i
posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche
il Papa si fa abbindolare………
Gli
‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare
alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le
parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria ("Coloro che
nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione
con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano
del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più
alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni.
A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha
varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che
protestano e officiare una messa speciale per loro. "Ma per favore
non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it
- qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La
verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste
dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se
tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se
dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo
scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo
più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha
indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro
espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a
confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha
spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in
protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena
andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha
invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento
del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia
clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù
Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed
economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa
Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato
il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno
tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della
messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna
portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari.
"Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.
Il razzismo
è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.
RAZZISTI. SE
QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli
occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in
fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi
paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro
l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così:
questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante
dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una
sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali
del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi,
gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a
presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera
di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca
comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati
nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci
qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista
innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra,
in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la
rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che
denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita
una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata
sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie
bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno
dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale
(commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il
corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che
l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia)
vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti
negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan
calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone
senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è
successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando
nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No,
i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata
della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati
che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di
tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola
di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a
chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla
percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro
capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da
arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon
samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo.
Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata
è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge
che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è
imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un
pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan,
visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la
Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera
vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il
clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto
tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini.
L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo
fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto.
L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle
loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le
white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i
partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e
che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa
dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro.
Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.
SINONIMI E
CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO
NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. "Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato
segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle
organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da
Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo
l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano,
Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata
dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata
"con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni
di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma
potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del
Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la
presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse
che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati
alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su
“Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato
antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi
non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno,
e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il
concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese
viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti
riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di
lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro
residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere
"150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso
e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur
esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil
ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci
abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e
cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo
nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime
di un razzismo sempre più manifesto.
Il delegato
di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una
lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico,
stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale
calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della
Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato
Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla
Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai
calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa
di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi
intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla
Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di
posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali
regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti
e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria
scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini.
Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle
dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una
funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il
delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà
in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per
iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di
uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i
nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e
in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano
strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera
identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro
che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia.
Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota
mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la
vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che
hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di
scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un
popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti
ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la
deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.
Da diversi
mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e
nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema
economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi
vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori
di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli
ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto
negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale,
bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare
tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale
precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici
continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre
imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un
periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor,
considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una
strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose
delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne
reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci
come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e
professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo
alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese
settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori
controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa
scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del
nostro geographical handicap ”.
QUANDO
L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO
DALLA CHIESA. Carissimo
dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il
Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non
ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare
frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo
capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate
nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella
veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state
scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire
sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di
Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di
Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche
uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto
dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla
è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano,
REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle
parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o
amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere
che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a
'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama
realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto
male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei
con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini
onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli
imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che
non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più
una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un
futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha
offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande
conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si
diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un
fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la
gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha
offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro,
interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi,
ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella
che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.
L’ITALIA
DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
L’italiano è
stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.
Fino a poco
tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento
alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati
fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato
morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del
Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di
porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la
"Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in
navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era
"seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della
navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio
da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione
anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si
è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un
omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre
della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52
volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che
fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno
fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi.
Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove
per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500
metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché
vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito
"passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il
comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la
capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima
gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è
incagliata era troppo tardi.
Da un
inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita
antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù
altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme
gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male
uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di
sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia
delle mafie”.
Una protesta
plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i
fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”,
davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di
protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo
il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio
Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di
sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe
Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono
allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano.
Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime
località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica
che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni
degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini
delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati
cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi
intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non
lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento,
esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con
quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un
interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle
processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a
centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici?
Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello
Stato?
Dare
credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il
sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo
comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che
si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i
fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi
siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico
Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega
ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di
paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve
essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa
condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire
la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e
colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al
corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio
Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione
dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso
Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi
svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e
ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a
passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in
direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro,
nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione,
improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si
trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che
quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di
Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo
era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla
Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone
che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza
divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro
nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di
buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la
popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi
paesi ed evitare il disordine pubblico».
Se non vanno
bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di
Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione
di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento
«di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi
Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei,
caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono,
invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso
spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma
della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini”
delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e
ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il
contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di
sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I
militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande
saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in
un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la
processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona
orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà
aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a
quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il
clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri,
il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si
pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per
ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli
vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti.
«Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel
trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed
uno per pregare».
In
conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono
l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica
dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti,
fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato
opprimente che ha vergognosamente fallito.
L’italiano è
stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi
l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde
ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di
tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?
Ricordatevi
che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi
pubblici falsati. Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.
La Madonna
si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in
carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso
onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta
anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo
padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di
Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa
portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss
Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli
onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua
famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria
Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della
madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta
dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della
famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di
Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia,
nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui,
tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la
processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via
Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino
a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone,
scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro.
Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro
D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla
telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da
qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta
Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la
raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra
ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due
passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le
foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa
l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il
confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e
profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna
con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la
mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga
milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del
padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la
festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un
po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia,
ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più
lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso.
Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non
fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin
sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un
sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’
Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è
accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via
Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato
solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della
madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare
la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello.
Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti».
Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere
concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando
tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel
modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto
ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?»,
ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera
di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz
disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo
in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato —
sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il
cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio,
a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa
nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi
boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della
Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti
processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla
vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della
Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno
svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La
Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto
non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno
faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava
persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo:
«Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni
mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.
Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei
poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al
video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un
affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”.
Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede
oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa
dalla stessa Repubblica – del «video
shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione
offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della
Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti
all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per
rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del
lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva
Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale
processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per
poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica,
«siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi
liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non
è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene.
A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la
tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica
fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si
fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto
spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale
laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là
valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a
rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si
pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro
all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?»,
domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias.
«Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias
ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss
mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia
di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo
stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa
Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda.
Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso
della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una
religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri
emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias
«suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una
fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il
commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì
i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto
della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni
sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso
cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si
mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un
semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in
pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto
questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.
“Inchino” a
Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono
strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”.
Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione
a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i
mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma
a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre
Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo,
gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27
luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono
scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine
al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata
del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà
del mafioso.
«Escludiamo
categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di
compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.
Padre, cos’è
successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita
di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la
statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.
«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto.
La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata
la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi
confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la
processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune
tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che
possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è
costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una
delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la
processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla
Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché
li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno
alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito
ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i
confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse
generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso
ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate
della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici,
altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».
Nell’occhio
del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?
«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non
ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo
approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi
minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il
proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la
statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché
una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a
sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto
quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il
cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo
video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli
elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione
è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa:
all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso
è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss
facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più
assoluto».
Perché
secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?
«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è
giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto
cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione
di Oppido Mamertina e per le parole di giusta
condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non
c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia.
Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che
persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti
tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede
quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì
spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida
tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di
quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua
notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali
media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che
tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino,
processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si
inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e
inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita
ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista
per diffamazione».
Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto
che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda
fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?
«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce
le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è
stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare
nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle
tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni.
Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite
religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio,
che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».
Nelle feste
religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i
mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?
«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo
esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e
della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da
tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la
conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della
zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il
rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo
significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di
convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».
Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi.
«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo
pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle.
Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è
stato martire della mafia».
Secondo lei
andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?
«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come
quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La
confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili,
il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti
mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara
alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa
alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza
della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si
possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel
territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno
spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi
giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo
la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente
anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga
tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite
vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».
In tutta
questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.
IL SUD
TARTASSATO.
Sud
tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il
Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è
meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico
a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per
defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro.
A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in
arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella,
dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E
basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente
“appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era
il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la
fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa
Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto,
per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i
trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose:
livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a
prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la
classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per
gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo
l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”.
Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi,
quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non
facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono
avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove
vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi
prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è
ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari
prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali.
Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In
compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le
smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei
laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe
studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano
in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è
diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche
comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e
quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta
esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale.
Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso
la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio
verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino
lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile
a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a
Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti
clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo
perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno,
che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una
volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati
contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci
ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il
vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in
poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i
trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione
fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo
frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori
dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il
federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello
Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali,
destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci
garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento,
il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord.
Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato
una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media
meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia
statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate
insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se
ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come
sempre.
Non solo i
cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi
estenuanti.
Lo scandalo
del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco.
Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza
alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di
appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo
sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina,
responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass
media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra
vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera
regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti
dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro
stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi
economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche,
interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di
lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi
carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis
in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno
di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di
stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda,
dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento,
infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la
mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi:
“Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il
gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de
Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale
è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora
la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle
dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite
su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione
a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per
far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è
previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di
queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso
sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa
incrociata) abiti l’82enne ergastolano. inchino al
boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus
belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la
Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente,
del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si
potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come
essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono
a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo
di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha
continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del
fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a
battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia
offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l'applauso
della ‘ndrangheta.
Guai però a
schierarti contro il conformismo.
Cafiero De
Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di
Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono
giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che
invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»
Così muore
la democrazia. «Cafiero de
Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di
essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti,
professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca
all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i
poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i
giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti
dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati –
soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta
alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma
noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è
troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17
luglio 2014.
«Caro
procuratore De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per
capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può
ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini,
farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non
è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e
democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in
conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di
libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i
diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i
diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento
dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si
stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi
sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei e con altri settori della
magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese,
perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è
svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti,
schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora
più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti
possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice:
“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro
Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti
l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia
consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel
comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere una
azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente
l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi,
sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no
per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”,
questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro
Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie
relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma
scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel
quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere
embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco
dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma
era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma
io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte
da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se
non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un
giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti
alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si
possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa
violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura,
sia un sospetto del tutto legittimo.
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio… Con Stima. Piero Sansonetti».
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio… Con Stima. Piero Sansonetti».
Ed
ancora......Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli,
vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero
Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche
candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a
una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali
calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi
siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in
Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno –
tranne “Il Garantista”- critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con
noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra
qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella
sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere
assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo
l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia
(oltre che della federazione della stampa e della stessa Procura di
Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in
particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale,
in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro
giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non
possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e
ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere
più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da
Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri
pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della
stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli
interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono
giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono
sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi
Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li
denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i
giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi
sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste
frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per
verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto.
Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva
con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho
con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per
favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci
sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla,
querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non
farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza
avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di
niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia
opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile
proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase
che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico
(dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma
non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del
“Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino
al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del
“Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte
di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà
linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete
– a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare
dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro
Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato
democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci
tocca combatterla in assoluta solitudine.
Gli strali
della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per
l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne
riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della
Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito?
Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che
non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di
Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno
collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per
e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro
al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa
avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti?
Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con
l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i
quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che
bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato
via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi
tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero
De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo
scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato
non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti
cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce
controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel
suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il
“gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di
pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con
rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità
organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria.
Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come
avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente
pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per
pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione
Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni
dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio,
quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a
proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe
necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo
periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo
così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho
ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in
termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della
‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e
infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole
schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti.
Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la
Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente
della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di
quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito
“pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima
direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari
che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si
levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è
diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla
semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io
credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare
l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi
(come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la
‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale.
Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio
favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non
sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia,
Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri
giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina
stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario
nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa,
Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione
di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai
colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei
denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato
dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della
magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa
influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere
diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e
lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex
editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare
prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati
troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da
problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla
Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete
dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro
stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina
Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre
anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano
domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato.
Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti,
presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su
Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi
passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati),
cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora,
sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta
all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con
il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il
sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far
finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il
legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino,
che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e
assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da
Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non
aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una
lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire
l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo
vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per
questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato
di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione
Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine.
Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina
Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune
sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere,
eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il
fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la
preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una
“strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze
dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con
coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare
quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi.
Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso
la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero
De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo
direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma
sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a
raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non
verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di
riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla
rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto
alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla
il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande
maggioranza dei cittadini calabresi e’ in grado ed ha la volontà di saper
distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per
percorrere la strada della piena legalità».»
Piero
Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo
giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di
preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del
personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che
consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è
stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non
lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi
di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione
dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e
nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai
tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni
avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi.
La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro
lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a
dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel
lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono
le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un
male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne
vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di
avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine,
quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare:
“è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire
che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera
all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale
davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo
senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non
esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve
lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento
l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un
fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe
avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa
lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché
pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di
poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che
sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più
compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere
qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la
presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene
voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si
parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai
creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un
principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può
essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta,
vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è
affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della
ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i
diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si
oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza
delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli
interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il
contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la
legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il
quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile
trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito
e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale.
Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto,
soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da
decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto
del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene
chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la
deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi,
sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o
piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di
massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un
delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si
è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo,
in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi
personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto
una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui,
esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e
in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di
scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna
Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche
detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai
quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto
guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un
call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come
giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne
con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso,
pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E
pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso
eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso,
conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche,
però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando
sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho
scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la
classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia
rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi
finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni
confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a
smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che
la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito
l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il
padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato,
deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il
“padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola
che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il
proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti,
strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa
parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e
anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui
giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho
grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il
compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto
accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in
Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e
padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il
garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della
civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi
sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo.
Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti
spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in
Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un
certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli,
perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua
spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il
male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e
fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti.
Devo dire, onestamente, che lui – Cafiero – poi ha precisato
meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di
discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra
sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta
questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere
una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione
assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita
pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
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