Carceri, carcerati e parenti dei carcerati. Dove
sbagliano i Radicali? Inchiesta di Antonio Giangrande.
I radicali da anni si distinguono con il Satyagraha
per la loro lotta non violenta a favore dei diritti dei detenuti. I risultati
sono scarni e su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo
storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco,
l'Italia che siamo" ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande
sui vari aspetti della giustizia ha pubblicato dei volumi:
"Ingiustiziopoli, ingiustizia contro i singoli";
"Malagiustiziopoli, malagiustizia contro la collettività";
"Impunitopoli, legulei ed impunità". Egli afferma: «Una lotta impari destinata alla sconfitta. Forse
perché sono sempre le stesse facce a rappresentare lo sparuto gruppo radicale o
forse perché l’Italia è in mano a quattro pennivendoli che scrivono le stesse
cose, od in mano a quattro legulei che fanno le stesse cose, od in mano a
quattro politicanti che dicono le stesse cose. Dov'è il nuovo che avanza, che
si è palesato come la brutta copia dei forcaioli? Fatto sta che è inutile
lottare a favore degli italiani. Un popolo sodomizzato, che da masochista tace
sulle sofferenze subite e non si ribella alla sua situazione. Difatti, come mai
si lasciano a sparute rappresentanze di cittadini questo enorme aggravio di
denuncia sulla giustizia, mentre i parenti dei detenuti sono centinaia di
migliaia? Sarebbero milioni se si considera che a loro si aggiungono i parenti
di quei 5 milioni di italiani che negli ultimi 50 anni sono rimasti vittima di
errore giudiziario o ingiusta detenzione. Sarebbero il primo partito in Italia,
pronto a metter mano a quelle riforme tanto auspicate e reclamizzate, ma mai
approvate dalle lobbies e caste al potere. La masso-mafia che tacita le
coscienze ed uccide la speranza.»
Nella città invisibile, dove il sovraffollamento delle
carceri e i diritti dei detenuti sono temi su cui raramente ci si sofferma, c’è
chi opera anche tacitamente affinché questo muro del silenzio crolli
definitivamente. Ciò nonostante un'informazione non democratica e poco
veritiera determina i sentimenti rancorosi. I tg si basano su fatti di sangue.
Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità
su una semplice questione: di carcere si muore.
28 luglio 2014, l'AGI diffonde. "Ore di grande
tensione si sono vissute nella mattinata di ieri all'interno del carcere di
Taranto ove un paio di detenuti dopo aver distrutto la loro stanza avrebbero
incitato tutti gli altri detenuti a rivoltarsi contro il personale di Polizia
Penitenziaria". Lo denuncia in una nota il Sappe, il sindacato degli
agenti della Polizia Penitenziaria. "Fortunatamente – è scritto nella nota
del Sappe – è giunto prontamente sul posto il comandante di reparto che dopo
aver parlato con i rivoltosi ha risolto il tutto non senza conseguenze per i
poliziotti penitenziari poiché un paio sarebbero dovuti ricorrere alle cure
dell'ospedale. Ormai il problema della sicurezza del carcere di Taranto,
considerata l'irresponsabilità dell'Amministrazione penitenziaria, a cominciare
dal Dap a Roma e per finire al provveditore regionale a Bari, non consente più
perdite di tempo". Per il Sappe, "è necessario che il prefetto di
Taranto prenda in mano la situazione e convochi con urgenza un comitato per
l'ordine e la sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto alla
presenza dell'Amministrazione penitenziaria e dei sindacati che tutelano i
lavoratori su cui ricade la tragicità della situazione. Ormai - conclude la
nota – è tempo di fatti poiché è in gioco oltreché la sicurezza del carcere e
dei lavoratori quella della città di Taranto e dei propri cittadini".
Nonostante tutti sappiano, sono pochi, però, i
familiari dei carcerati disposti a metterci la faccia. Delegano ai pochi di
buona volontà l’arduo compito di denuncia.
31 luglio 2014: Cronaca del presidio dello Slai Cobas
sindacato di classe di Taranto in solidarietà coi detenuti del carcere. Dai
pochi familiari dei detenuti intervenuti la testimonianza della pesante
condizioni nel carcere di Taranto.
«Sul sovraffollamento, sono costretti a stare in 5/6
nelle celle previste per due, massimo tre persone; d'estate si muore dal caldo,
d'inverno piove acqua dentro le celle. C'è degrado. I detenuti che vengano
mandati giù in isolamento, sono poi abbandonati. Il letto è sporco, pieno di
polvere. Il cibo qui viene portato dopo. Vengono puniti perchè si ribellano?
Perchè hanno protestato per le condizioni in cui vivono? Al di là dell'impegno
del personale sanitario, possono passare anche mesi prima che vengano visitati;
anche se i detenuti hanno problemi urgenti, per es. ai denti, gli viene detto
che provvederanno ma poi niente. Certo gli agenti sono pochi, ce ne vorrebbero
di più e neanche loro stanno bene, ma sono i detenuti quelli che stanno male e,
invece, non hanno voce. Per loro non c'è alcun intervento di recupero, quando
escono non c'è lavoro. Soprattutto i giovani stanno perdendo gli anni più
belli. Vi sono ragazzi che non hanno fatto cose gravi eppure restano per mesi e
mesi, anche anni. Certo i nostri familiari che stanno in carcere hanno
sbagliato, nè pensiamo che possano stare in carcere come se stessero in
villeggiatura, ma devono essere trattati come persone non come animali.»
Analoghe iniziative, manifestazioni, picchetti,
“presidi” e richieste di impegno sono in corso in altre realtà, dall'Abruzzo a
Napoli, in Veneto, Emilia Romagna…ad opera dei Radicali italiani, con il
difficile Satyagraha con i mezzi (scarsi), le risorse (fantasia tantissima,
denaro assai poco), e cercando di insinuarsi negli spazi sempre più stretti di
istituzioni e mezzi di comunicazione, “armati”, come si diceva un tempo, di
nonviolenza.
Eppure tutti sanno. Carcere: storie di ordinaria
follia, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Rita Bernardini, Segretaria di
Radicali italiani, racconta alcune delle vicende ai limiti della realtà. Che si
fa, si ride o si piange? Questa storia l’ha scoperta la Segretaria di Radicali
italiani Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani; è una storia
paradossale, ma lasciamola raccontare alla stessa Bernardini. “Mentre si
scaricano sui Magistrati di Sorveglianza e sui loro uffici ulteriori compiti ai
quali adempiere, e mentre da anni i Tribunali di Sorveglianza non riescono a
seguire nemmeno l'ordinaria amministrazione, all'Ufficio di Sorveglianza di
Modena può accadere che una signora da tempo stia cercando di interloquire con
il Magistrato, stressata da telefoni che non rispondono, da uffici che non
chiariscono e che rimandano sine die gli adempimenti che competono loro per
legge”. Bisogna dire che da tempo a Modena non c'è il Magistrato di
Sorveglianza che ha la competenza anche degli internati di Castelfranco Emilia;
questo significa che nessuno si occupa delle istanze dei detenuti dei due
istituti; significa, solo per fare qualche esempio, niente permessi, niente
licenze, niente ingressi nelle comunità terapeutiche. Dopo giorni e giorni di
peripezie alla signora l’Ufficio di Sorveglianza fa sapere che "neanche
loro sanno quando arriverà da Roma il sostituto magistrato, e che è tutto fermo
fino al suo arrivo". Decisa a non mollare, la signora telefona al
Ministero della Giustizia; le viene consigliato di telefonare al Consiglio
Superiore della Magistratura. Una signora ostinata, alla fine ce la fa a
parlare con la sezione Settima del CSM; e le riferiscono che a loro risulta che
il magistrato ha già preso l'incarico, si tratta del dottor Sebastiano
Bongiorno. Forte di questa notizia ritelefona all'ufficio di Modena dove
finalmente le dicono che effettivamente il magistrato ha preso l'incarico... ma
è andato in ferie e, comunque, anche dopo le ferie non rientrerà perché...
andrà in pensione! “Quando la signora in questione mi ha raccontato questo
fatto”, dice Bernardini “non ci volevo credere. Constato,
attraverso una ricerca fatta al volo su internet, che in effetti il dottor
Bongiorno, magistrato e politico eletto nel 1994 nella lista dei Progressisti,
ha assunto servizio l'8 luglio scorso e che la decisione del Csm risale al 19
febbraio. Faceva parte della vasta schiera di Magistrati fuori ruolo presso il
Ministero della Giustizia (Dap): la pacchia pertanto avrebbe dovuto finire, ma
il dottor Bongiorno, come abbiamo visto, ha trovato un'alternativa. Dal
canto suo, il magistrato Dal canto suo, il magistrato di Reggio Emilia
– che in teoria sostituisce quello di Modena - non firma le licenze,
quindi il risultato è che tutti i semiliberi che regolarmente usufruiscono di
licenze, proprio nei mesi più caldi di luglio, agosto e settembre, non avranno
la possibilità di esercitare un loro diritto. Inoltre, in molti avevano già
prenotato le ferie per andare nei loro paesi di origine a trovare i genitori,
che a loro volta aspettavano da tutto l'anno questo momento. Di fronte a questa
situazione, il Ministero della Giustizia tace, così come tacciono al Csm e la
Procura Generale della Corte di Cassazione: è estate, i magistrati vanno in
ferie e quanto prescritto dalla legge può attendere, in un Paese
pluricondannato per violazione dei diritti umani fondamentali”. E ora la
storia di una persona che viene sottoposta ad anni di carcere, li sconta, viene
assolto e per l’ingiusta detenzione non viene risarcito. Si chiama Giulio
Petrilli, questa vittima della giustizia ingiusta italiana. Ha scritto una
lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Attende
risposta. "Gentile Presidente Renzi", scrive il signor
Petrilli, "visto che la legge attuale sulla responsabilità civile dei
magistrati prevede di inoltrare il ricorso e anche il risarcimento al
presidente del consiglio dei ministri, le inoltro la richiesta di risarcimento
danni, quantificabile in dieci milioni di euro, per l'errore giudiziario
commesso dal procuratore del tribunale di Milano e la Corte dello stesso
tribunale che mi condannò in primo grado. Da anni mi batto per avere giustizia
sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con
l'accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986,
dopo l'assoluzione in giudizio d'appello presso il tribunale di Milano. Uscii
innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un'accusa di banda
armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime
articolo 90, più duro dell'attuale 41 bis. Anni d'isolamento totale, blindati
dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri,
anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e
secondo canale. Sempre, sempre soli, con un'ora d'aria al giorno, in passeggi
piccoli e con le grate. Un'ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i
vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi
la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989". Chissà se Renzi
ha risposto, anche un solo twitter.
«Ecco perché proseguo il Satyagraha, dice Rita
Bernardini. Vi spiego perché proseguo il Satyagraha insieme a Marco
Pannella con il sostegno attivo di oltre 200 cittadini. Marco Pannella
sta praticando il Satyagraha nella forma dello sciopero della sete, nonostante
i medici glielo sconsiglino nel modo più assoluto:
- è inconcepibile per uno Stato che si definisca
democratico che il boss di “cosa nostra” Bernardo Provenzano sia ancora
detenuto in regime di 41-bis (carcere duro). Occorre immediatamente
interrompere questa vergogna che mette lo Stato italiano a un livello di
criminalità superiore a quello dei peggiori mafiosi o terroristi.
- occorre intervenire immediatamente per
garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere
“curati” nelle strutture carcerarie. Responsabili di questa situazione sono il
Ministero della Giustizia, quello della Sanità e i magistrati di sorveglianza.
- il decreto sulle carceri in fase di conversione
alla Camera, nel prevedere le misure risarcitorie per i detenuti che hanno
subito trattamenti inumani e degradanti – che noi radicali abbiamo definito “il
prezzo della tortura” – non ha corrisposto minimamente a quanto previsto dalla
Corte EDU e a principi elementari di costituzionalità. Questo non lo affermiamo
solo noi radicali, ma anche la Commissione Affari Costituzionali della Camera
che ha espresso seri dubbi circa queste misure chiedendo alla Commissione
Giustizia se “siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013
(causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti)
ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale”.
- Oltretutto, gli 8 euro per ogni giorno di
trattamenti inumani e degradanti subiti in violazione dell’art. 3 della CEDU, o
il giorno di sconto di pena ogni 10 giorni passati in carcere nella condizione
suddetta, costituiscono misure inapplicabili per una Magistratura di
Sorveglianza già sotto organico e non in grado -da tempo- di affrontare i
doveri quotidiani ai quali è chiamata; lo stesso vale per i Giudici civili che
dovrebbero ricostruire giorno per giorno e per ciascun detenuto le condizioni
di carcerazione nei diversi spostamenti che i reclusi subiscono durante la
permanenza nei penitenziari italiani: cambio di cella, di sezione, di istituto.
- occorre che Televisioni pubbliche e private
rimedino all’ignobile censura che hanno riservato agli esiti della visita
effettuata in Italia (dal 7 al 9 luglio) da parte delle Nazioni Unite tramite
il “Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria”. Nel documento redatto e
nelle richieste rivolte al nostro Paese dall’ONU ci sono tutti gli obiettivi
della nostra lotta e tutti i contenuti del Messaggio al Parlamento del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, amnistia e indulto compresi.
Gli esperti ONU hanno anche avuto da recriminare su un argomento tabu in Italia
come quello del 41-bis, al quale solo noi radicali ci opponiamo. Secondo l’ONU
non ci siamo ancora “adeguati ai requisiti internazionali per i diritti umani.
Troppo pochi 8 euro al giorno ai detenuti che hanno
sofferto una carcerazione inumana. Il rischio è che l’Europa ci sanzioni
anche per questa maniera di mettere pezze ai danni già fatti. Non lo dicono
solo i radicali italiani di Rita Bernardini e Marco Pannella, che di questa
battaglia hanno fatto da tempo una ragione di vita e di verità, ma lo hanno
messo nero su bianco i membri del Csm, con un voto che quasi all’unanimità, 19
voti favorevoli e due astenuti, ha bocciato il decreto del ministro Andrea
Orlando.
“L’obiettiva esiguità del quantum risarcitorio da
liquidarsi – si legge nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione
(relatrice la togata di Unicost Giovanna Di Rosa) – senza che alcuna
discrezionalità sul punto residui al giudicante, potrebbe infatti essere
sospettata di svuotare di contenuto la tutela offerta dalla disposizione
sovranazionale, la cui violazione non darebbe luogo ad un effettivo ristoro per
equivalente da parte dell’amministrazione”.
“Al di là della evidente esiguità della somma – ha
osservato il Csm – chiaramente riconducibile al timore che il
riconoscimento di importi assai cospicui a favore dei danneggiati possa gravare
eccessivamente sulle finanze dello Stato, la previsione di un siffatto limite
appare discutibile anche sotto il profilo della rigidità del tasso di risarcimento
previsto per legge, senza che sia prevista alcuna possibilità di graduarlo in
ragione della gravità del pregiudizio eventualmente accertato”.
Rita Bernardini sul Satyagraha in corso: ''Serve la
mobilitazione anche dei detenuti''. Nelle carceri, intanto, ci si continua ad
ammalare e a morire. Sono 82 i morti dall'inizio dell'anno, dei quali 24 per
suicidio, riporta “Espresso on line”. La puntata di Radio Carcere andata in
onda martedì 29 luglio 2014 ha visto la presenza in studio della segretaria di
Radicali Italiani, Rita Bernardini, e quella di Marco Pannella. Come ricordato
dal conduttore del programma, Riccardo Arena, Rita Bernardini è giunta a quota
29 giorni di sciopero della fame contro la "morte per pena" e
affinché lo stato la smetta di comportarsi come "il peggiore dei
criminali" in riferimento anche alla vicenda umana di Bernardo Provenzano
e la sua permanenza al 41 bis in condizioni pressoché larvali. La puntata ha
inoltre ananlizzato i contenuti dell'interrogazione presentata giovedì scorso
dal vicepresidente della Camera, On. Roberto Giachetti (Pd) su sovraffollamento
carcerario e capienza degli istituti. Arena ha quindi ricordato che venerdì
scorso c'è stato un nuovo suicidio al carcere Due Palazzi di Padova. Un morto è
morto per impiccagione nella propria cella, il suo nome era Giovanni Pucci, 44
anni di Lecce, che stava scontando una pena di 30 anni di reclusione. A questo
detenuto era stato da poco negato il permesso di lavoro esterno al carcere, a
causa di una rissa dietro le sbarre in cui sarebbe stato coinvolto e su cui è
in corso un'indagine. Si tratta dell'82 esimo detenuto morto nelle carceri
italiane nel 2014. Tra questi 24 sono i suicidi. Il deputato ha ribadito la
necessità di amnistia e indulto, citando gli interventi di Giovanni Paolo II in
Parlamento (2002 e in qualche modo prodromico all'indulto del 2006) e il più
recente messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere, datato otto ottobre dello
scorso anno. Il Parlamento però, secondo Melilla, non ha il coraggio di
prendere certe decisioni per paura dell'opinione pubblica che confonde
"l'esigenza di sicurezza con una lotta disumana nei confronti di chi ha
sbagliato".
"L'informazione determina i sentimenti rancorosi
evocati da Melilla – ha proseguito la Bernardini – un'informazione non
democratica e poco veritiera. Il centro d'ascolto ha documentato che i tg si
basano su fatti di sangue quando è risaputo che gli omicidi sono in netto calo
rispetto ad alcuni anni fa. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa
ragionare con fatti di verità su una semplice questione: ovvero che in realtà
se si fa un carcere diverso, se si usano misure alternative c'è più sicurezza
per tutti. Quando non si mandano direttamente le persone nelle carceri illegali
italiane, la recidiva si abbassa drasticamente".
Anche il tema della sanità in carcere è tornato al
centro della discussione: "Non è solo una questione di metri quadrati – ha
dichiarato la Bernardini - ma anche di sanità e in generale di mancanza di
cure. Una percentuale intorno al 30% dei detenuti ha problemi psichiatrici e in
carcere c'è un'alta probabilità di veder manifestare problemi psichiatrici
proprio per le condizioni in cui si è costretti a vivere. Poi ci sono il 32%
che sono tossicodipendenti e hanno già problemi di loro. Anche se sei sano ti
ammali, il carcere è un luogo dove ci si ammala spesso gravemente e troppe
volte si muore per mancanza di cure e perché indagini urgenti tipo le Tac non
vengono eseguite se non dopo quattro mesi o un anno, quando ormai è troppo
tardi. Inoltre ci sono detenuti che vengono accusati di fare scena, non vengono
creduti e muoiono in carcere. Non tutte le carceri hanno la guardia medica h24,
pochissime hanno il defibrillatore e anche dove c'è non sanno usarlo.
Andrebbero fatti dei corsi per gli agenti e per chi è presente in carcere ma
non vengono svolti".
"C'è da occuparsi e preoccuparsi di questo – ha
poi dichiarato Pannella entrando nel merito delle questioni - Renzi non si
rende conto che, con queste condanne formali e quando il massimo magistrato costituzionale
(Presidente della Repubblica) manda un messaggio alle Camere in cui scrive che
quanto viene detto da Cedu, Corte Costituzionale (e perfino dall'Onu, benché in
un momento successivo) è qualcosa che crea l'obbligo, questo parlamento non ha
neppure discusso e in questo dà la misura di se stesso". Ha sentenziato
l'anziano leader che si è soffermato anche sulla vicenda riguardante
l'irragionevole durata dei processi ricordando che: "Già nel 1976 mi
schieravo contro i comunisti che erano contrari all'amnistia preferendo le
prescrizioni". Quindi Pannella ha letteralmente tuonato contro l'indegnità
del nostro paese a far parte di quella stessa Unione Europea che pure ha
contribuito a fondare: "L'Italia andrebbe espulsa dalla comunità europea per
la somma e per il prodotto delle violazioni commesse – Pannella ha evocato in
proposito una ricerca sul costo economico delle procedure d'infrazione contro
l'Italia, a cura di Massimiliano Iervolino - e con la nonviolenza dobbiamo
giocare al massimo la partita per il diritto e per i diritti". Tra questi
il diritto costituzionale alla salute in carcere.
A proposito viene i aiuto la toccante testimonianza di
Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Sovraffollamento
delle carceri: Michele se n’è andato. È una calda giornata di
luglio. Le imponenti mura di recinzione che circondano l’edificio
principale sono la prima cosa che mi lascio alle spalle quando oltrepasso il
massiccio portone blindato, che sembra ruggire mentre si apre e si richiude a
battente. Prima di arrivare alle “sezioni” che ospitano i detenuti devo
percorrere alcuni metri a cielo aperto, interrotti da almeno altri due
fabbricati di cemento armato e acciaio, all’interno dei quali vengo sottoposto
a rapidi controlli dalle guardie carcerarie che mi riconoscono subito e si
limitano ad una superficiale occhiata al “pass” che il loro collega mi ha
rilasciato all’ingresso. Mi capita spesso di addentrarmi dentro “l’inferno”. Lo
chiamano così, quelli che ci finiscono dentro, per colpa loro o, in certi casi,
anche per un errore giudiziario. Dentro “l’inferno” ci trovi quelli che
sono gravati da una misura cautelare e che, secondo il magistrato, finché il
procedimento non si conclude, potrebbero inquinare le prove, tentare la fuga o
commettere un altro reato. Tra di loro anche chi sta scontando una condanna
definitiva. Ho superato l’ultimo controllo e percorro gli ultimi metri
all’aperto. Inevitabilmente alzo lo sguardo. Dalle inferiate saldate al
perimetro di una finestra fuoriescono le braccia a penzoloni di un detenuto.
Scorgo i suoi occhi rassegnati che fissano il vuoto. Dietro di lui credo di
aver intravisto le ombre dei compagni che si agitano dentro la cella. Proseguo
ancora. Davanti a me sento il fischio del motorino elettrico che fa scattare la
serratura dell’ultima porta d’acciaio che mi separa dall’”inferno”. Sono
dentro. Noto che alcuni agenti della penitenziaria parlano tra di loro in
modo concitato. Capita a volte quando ci sono problemi con i detenuti. Il
piantone mi fa segno di andare. Mi accomodo in una delle stanze messe a
disposizione per i colloqui e attendo. “Oggi è una giornata molto pesante.”
Esordisce Marco che è appena sceso dalla seconda sezione. Marco ha 22 anni
ed è nato in Marocco ma è in Italia da quando aveva dieci anni. Parla un italiano
impeccabile. È cresciuto con gli zii e non ha mai conosciuto i suoi genitori. È
dentro da 11 mesi per una rapina aggravata. Ha preso una condanna in primo
grado di 3 anni. Abbiamo appellato la sentenza. Marco è la prima volta che
finisce in carcere e mi ha nominato da poco. È stato Michele ad avergli
consigliato di nominarmi ed io sto facendo un favore a Michele, un mio cliente,
che ha da scontare delle vecchie condanne per spaccio. Roba vecchia, ma con le
quali prima o poi Michele sapeva di doverci fare i conti. Michele ha
sessant’anni e dal carcere ci era già passato. Visto che era uno dei più
anziani aveva deciso di prendere sotto la sua ala protettiva quelli come Marco
che fanno il carcere per la prima volta. Michele si è affezionato a Marco. Sarà
per la differenza d’età. Marco potrebbe essere suo figlio. Michele mi ha
chiesto di difendere Marco gratuitamente ed era molto contento quando gli ho
detto che avrei accettato. “Ne hanno portati altri due e adesso nel “buco”
siamo in otto.” Mi dice Marco. Lo guardo per niente sorpreso. Quel carcere
aveva già avuto qualche problema: condizioni igienico sanitarie pessime e
sovraffollamento. Soprattutto quando arriva l’estate e si riempie di ladruncoli
e piccoli spacciatori. “Hanno dovuto aggiungere un letto a castello. Siamo
stipati come delle sardine. Con questo caldo non gira l’aria e mi sembra di
soffocare. Facciamo a turno per stare in piedi, anche solo per dare un’occhiata
fuori dalla finestra. Abbiamo una sola tazza del cesso per otto persone. E’
giusto secondo te?” Marco è un ragazzino intelligente, più maturo della sua
età. Lo guardo e ascolto senza fiatare. Annuisco soltanto e non posso fare
altro che prenderne atto. Dopo lo sfogo iniziale parliamo d’altro. Di cosa
farà un giorno quando sarà fuori e che dovrà cercarsi un lavoro. Ha deciso
che si rimetterà in contatto con gli zii che non vede da un paio d’anni. Da
quando ha deciso di vagabondare da una città all’altra. Nessuno da quando è
dentro è mai passato a trovarlo. Forse nessuno dei suoi familiari sa che lui è
dentro. Noto che Marco non ha molta voglia di parlare, allora provo a cambiare
discorso e a quel punto lui mi interrompe. “Michele se n’è andato…” “Michele se
n’è andato?”, ripeto come un automa. Provo a spiegargli che è
impossibile che Michele se ne sia andato, perché mi sarebbe arrivata una
comunicazione in studio e comunque la sua posizione doveva essere ancora
vagliata dal magistrato di sorveglianza. Mi sembra ridicolo dovergli
spiegare che uno non può andarsene dal carcere quando gli pare. Ma subito mi
rendo conto che sono io quello ridicolo. Marco ha gli occhi lucidi. In un
istante realizzo e mi sento un groppo in gola. “Quando è
successo?” “Questa mattina. Durante l’ora d’aria. Nella cella in cui era
stato trasferito le finestre del bagno erano abbastanza alte.." Era bravo
con i nodi Michele. Li aveva imparati sul lavoro. Per molti anni era andato per
mare. Imbarcato su un peschereccio. Michele era un pescatore. Michele quella
mattina aveva atteso che la cella si liberasse. Aveva preso un lenzuolo e aveva
fatto un cappio ad una estremità. Poi lo aveva girato attorno al collo. L’altra
estremità l’aveva già legata alle inferiate della finestra. Quindi si era
arrampicato sul piccolo lavabo d’acciaio. Prima di andarsene aveva dato
un’occhiata attraverso le sbarre. Fuori il cielo era di un limpido azzurro. Si
era lasciato sfuggire un sorriso. Era una splendida giornata d’estate.
Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di
Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.
Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai
pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio
Crispino su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà
tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra
persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due
giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause
più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio,
di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le
istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni
dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le
ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono
tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come
una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del
Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna
portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a
parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si
sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a
proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di
Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia
(caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato
all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò
nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta
impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire
delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona
Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei
diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si
procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono
facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto
nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come
praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto
e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte
del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro
l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta
da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò:
«Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li
trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo
di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta -
cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni
disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia
penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’,
in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna
prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che
chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha
venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha
messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea
dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o
Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo
Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti,
Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi
altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una
miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato
Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è
vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure
casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece
da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce
sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante
altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto
che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il
garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a
seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso
è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella
estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di
Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira
inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero
portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità
con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario
di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti,
sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle
forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che
c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti
e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo
schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta
sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova
all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi.
La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema
carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi
presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un
detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità
di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito
dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava
la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo.
Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere
sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo
portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro
dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero
mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero
le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero
discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce
così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare
le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice
con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti
Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una
settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per
mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due
infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La
avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a
un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico.
Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche
effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il
medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove.
Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano
picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima
ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene
fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano
alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma
della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere.
Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto
alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che
riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova.
Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno
spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia
disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da
inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così
il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che
procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano
deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino
come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi.
Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito
con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano
all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono:
«Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata
eseguita. Perché?».
Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le
denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche
mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un
gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni
raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella
zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è
guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse
come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte
fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un
voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è
“piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte
e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è
così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In
memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in
questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa
della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che –
secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di
ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei
carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una
cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le
denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su
bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze
subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta
di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso
aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la
testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha
riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e
trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo
dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania,
Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre
testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per
l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due
diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni
Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i
vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo
l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce
dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri
del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro
Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora
dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera
e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così
a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza
Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le
deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate
e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da
verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di
soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati
ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota
che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da
parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo
ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei
poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti
come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si
risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa
piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere
continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro
denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente
vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi
c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un
esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35
anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso
nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per
tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già
dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette
nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il
‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste –
esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica
naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai
scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella
cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e
il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i
racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio
bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno
dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per
spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La
paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti
gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi
seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto:
‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi,
a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche
un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere
che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta
il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite
si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i
detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno
assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo
boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto.
Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con
grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro
accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la
cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i
registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti,
a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta
sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati
nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane
potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente
culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di
scomunicare “solo” i mafiosi. "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se
possiamo prendere l'ostia", scrive Giuseppe Caporale su “La
Repubblica”. «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può
dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo ».
Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità"
del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei
quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la
visita ispettiva al penitenziario dell'assessore regionale alle Politiche
sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il
boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e
guardando l'assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla
‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro
prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo
tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare
a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il
detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le
parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla
televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco
De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci
siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le
sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la
stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c'è ancora bisogno di riflettere e
approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a
Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all'assessore: «Visto che è qui per
conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare
Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia
annuisce e prende appunti con un'assistente: «Capisco il vostro turbamento e
non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco
questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno
aiutarvi». Nella sala c'è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente
‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre
famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo
solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c'è nessuna rivolta come dicono
invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell'inchino... (con un chiaro
riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti
all'abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr )». A quel punto i detenuti
rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché
esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi? »,
si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico
Trisciuoglio: «Ci vogliono punire », dice. «Tutti questi articoli di giornale e
servizi della tv ci fanno solo del male». Nella "sala della
socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del
clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c'è: è rimasto in cella e non ha
voluto partecipare all'incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso
il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che
devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del
penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all'assessore le
attività dell'istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i
detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo
clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il
corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il
Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un'ora di ispezione dei reparti,
Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l'ultimo
messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla
vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della
misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il
presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
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