IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.
Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI,
LEGULEI ED IMPUNITA’”, un capitolo è dedicato al garantismo.
Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e
sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del
Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente.
Giangrande sui vari aspetti dell’impunità in Italia ha pubblicato un volume ““IMPUNITOPOLI,
LEGULEI ED IMPUNITA’”.
IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.
Il giovane Pippo Civati, giovane piddino intelligente
e scaltro, ha rilasciato una intervista a “Repubblica” per dire due o tre cose
che – a suo giudizio – renderanno più forte la sua posizione dentro il partito,
e magari daranno fastidio a Renzi. Per essere esatti ha detto cinque cose. Ha
detto che la riforma della giustizia va fatta senza Berlusconi. Che la riforma
della giustizia va fatta, invece, insieme ai magistrati. Poi ha detto anche che
la riforma della giustizia va fatta con Grillo. E infine si è scagliato contro
indulto e amnistia, giudicandole iniziative demagogiche, e si è detto invece
soddisfatto del decreto carceri che – a suo giudizio – alleggerisce la
condizione dei carcerati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Dei
carcerati stipati nelle celle: come lo alleggerisce, onorevole? Con gli otto
euro al giorno, che sono l’equivalente di 8 secondi della sua diaria da
parlamentare? Il giovane Pippo Civati, che politicamente è nato insieme a
Renzi, alla Leopolda, ma poi si è distaccato dal fiorentino scegliendo di
diventare – così mi dicono – il leader dell’ala sinistra del Pd, probabilmente
sa poco della storia della sinistra e della destra in Italia, e non è il solo.
E ignora – a occhio – che le sue posizioni favorevoli alle galere, contrarie
alle amnistie, e desiderose di lasciare che siano i magistrati a riformare la
giustizia, assomigliano parecchio a quelle che furono di un certo Mario Scelba
e pochissimo a quelle che furono di un certo Umberto Terracini. Visto che il
giovane Civati, come è logico, è giovane, è possibile che non sappia nulla di
Scelba e Terracini (del resto molti intellettuali di sinistra più anziani di
lui ne sanno pochissimo, o vogliono saperne pochissimo, o fingono di saperne
pochissimo). Dunque riassumo: Mario Scelba, siciliano, nato nel 1901. Fu il
segretario particolare di don Sturzo, poi legò con De Gasperi che lo fece
ministro dell’Interno. Comunisti e socialisti lo chiamavano ministro di
polizia. Usò la mano dura, seminò le piazze di morti e feriti e le prigioni di
militanti politici, pensò la legge-truffa e la difese, poi divenne presidente
del Consiglio dopo De Gasperi in un governo nel quale il vicepresidente era
Saragat, e che Nenni, scherzosamente ma non tanto, usando le iniziali dei due
leader, definì il governo “S.S”. Poi Scelba fece una legge che stabiliva che il
fascismo fosse un reato d’opinione, per fortuna mai applicata, ma questa legge
non gli conquistò –come lui si aspettava – simpatie a sinistra, perché le
sinistre intuivano che nella sua testa c’era l’idea di fare una legge
successiva, che trasformasse anche il comunismo in reato d’opinione. Insomma,
onorevole Civati, capito che tipo era questo Scelba? A lui non piacevano
indulto e amnistia, amava le celle ben stipate e voleva che la giustizia fosse
forte e salda nelle mani dei magistrati. Umberto Terracini invece era un
avvocato ebreo genovese – il padre si chiamava Jair, come la mitica ala destra
dell’Inter – di sei anni più vecchio di Scelba, era nato nel 1895, amico di
Gramsci, fondatore del partito comunista, antistalinista, espulso dal Pci negli
anni trenta e poi riammesso, sempre anticonformista, sempre libertario, e
quando era già vecchio, negli anni Settanta, si batté ferocemente contro la
legge Reale e altre leggi speciali e liberticide volute dal governo e
appoggiate dal Pci per colpire il dissenso di sinistra (e anche un po’ di
destra). Terracini – oratore fantastico – è quel signore che nel dicembre del
1947 firmò la Costituzione Repubblicana. Capito? Terracini si batté contro
Scelba nelle piazze, si batté contro Scelba nei tribunali, si batté contro la
legge truffa, fu sempre favorevole alle amnistie e agli indulti, combatteva
all’arma bianca contro le sopraffazioni dei magistrati, si trovò a battagliare
spalla a spalla con Marco Pannella. Scelba mise in prigione molte persone. Terracini
andò lui in prigione, per una decina d’anni. Ora torniamo un momento alle sue
tesi. Fare la riforma della giustizia escludendo Berlusconi – cioè
l’opposizione liberale – ed includendo i magistrati, è qualcosa di
terrificante. Lei pensa che affidando ai magistrati il compito di
autoriformarsi si difende l’indipendenza tra i poteri? Lei pensa che non esista
un conflitto di interessi se una riforma viene decisa da chi dovrebbe essere
l’oggetto di questa riforma? Lei pensa che escludere i liberali dalla riforma
della giustizia sia una cosa saggia? E poi, posso farle un’altra domanda che
nasce da una pura curiosità): ma come mai non le è neanche venuto in mente,
allora, di chiamare gli avvocati a collaborare? I magistrati sì, gli avvocati
no. Forse perché gli avvocati non sono un potere? Quanto a Grillo, e alla
proposta di collaborare con lui sul terreno della giustizia, mi sembra proprio
una bella idea: ieri Grillo ha detto che preferisce Pinochet al partito
democratico, ed effettivamente se l’Italia diventasse come il Cile di Pinochet,
il problema giustizia sarebbe risolto e anche il problema carceri (magari si
porrebbe una nuova questione: dove far giocare la seria A di Tavecchio, con
tutti gli stadi occupati dai prigionieri…). Vabbè, Onorevole, veda un po’ lei.
Io però torno per un attimo alle biografie di quei due padri della patria dei
quali le parlavo, per porle un’ultima domanda: Scelba o Terracini? Lei chi
preferisce? Perché il partito democratico, sarà un paradosso, ma è così: è
erede di entrambi. Di uno dei massimi leader della Dc e di uno dei massimi
leader del Pci. Si tratta di decidere il proprio punto di vista. Quello
che un po’ mi preoccupa è che lei, che vuole fare il capo della sinistra del
Pd, mi sembra molto più vicino a Scelba che a Terracini. Non so spiegarmi
perché. Forse perché ormai il modo è girato tutto alla rovescia, i valori si
sono invertiti, i pensieri aggrovigliati. O forse invece è per calcolo
politico. Perché qualcuno immagina che per essere di sinistra bisogna essere
coi giudici contro Berlusconi, e dunque per le galere contro la libertà, e poi
per Grillo e tutto il resto, e anche se a Grillo piacciono Le Pen e i golpisti
cileni va bene lo stesso…si, si, però voi siete sicuri che questa sia ancora
sinistra?
Il garantismo è di sinistra, scrive Piero Sansonetti
su “Il Garantista”. Può esistere il garantismo di sinistra?
Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una
influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra. Tutto
questo è successo molto, molto tempo fa. Soprattutto, naturalmente, quando la
sinistra era all’opposizione, o addirittura era “ribelle”, e quando i
magistrati – qui in Italia – erano prevalentemente legati ai partiti politici
conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione
fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti
staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo. Il
grande limite del garantismo, in Italia – e il motivo vero per il
quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra
– sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee – di
una convinzione assoluta – ma solo di una battaglia politica (questo, tranne
pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del
Partito radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si
determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico – o
giornalistico, o di pensiero – e la casta dei magistrati. Il “garantismo reale”,
diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione
della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a
un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura.
Per questo il garantismo non riesce più ad essere un “valore generale” e dunque
entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra – moderata,
radicale, o estremista – che vede nella magistratura un baluardo contro il
berlusconismo, e al “culto” di questo baluardo sacrifica ogni cosa. Tranne in
casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico.
Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche
caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano “transitoriamente”
garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a
trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente
uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle
proprie illegalità, non di difesa di tutta la società. Il garantismo
può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è
una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le
tradizionali distinzioni tra di sinistra e destra. La sinistra e la destra –
per dirla un po’ grossolanamente – si dividono sulle grandi questioni sociali e
sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con
questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti
individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra “legalità” e
“diritto”. Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra,
tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto
con le idee più reazionarie di Stato- Patria- Gerarchia- Ordine- Obbedienza-
Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il
solo limite della scarsa “passione” della sinistra per i diritti individuali,
spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E
quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa. Ed è
proprio in questa morsa tra destra e sinistra – tra statalismo di destra e di
sinistra – che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in
tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà.
Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno
delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, ipercapitalistica.
Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro.
E questa tendenza – che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di
destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino – passa
per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura
le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il
resto. L’idea è che moderno significhi “regolato”, “predeterminato” e che per
fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente,
libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge,
o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia “successiva” agli altri
valori. Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che
vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di
regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due
soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il
diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista. E non ha nessuna
possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di
ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può
sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro.
E’ la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se
ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura
reazionario-di-sinistra dei girotondi.
Pubblichiamo ancora qui di seguito l’intervista che il
direttore Piero Sansonetti ha rilasciato a editoria.tv e ripubblicata da
“Il Garantista”. “La sinistra non ha un’idea di libertà”. In un editoriale
di due anni fa su Gli Altri, Piero Sansonetti sintetizzava così la
sua posizione. Hanno scelto il liberismo, diceva, perchè è l’unica via possibile,
quando non sai – tu, Stato – governare il mercato, indirizzarlo, farci i conti.
Altro che “liberal” americani. Da noi non esistono. Quelli lì, oltreoceano,
sono chiamati in questo modo dai conservatori “con lo stesso sdegno con cui
Berlusconi dà ogni tanto a qualcuno del comunista”. Qui da noi è un’altra
storia. Qui la sinistra è fuori da tutto, non esiste, e quella che si spaccia
per tale “è di destra”, come recita il titolo del suo ultimo libro. E allora
che si fa? Come s’articola il discorso politico nuovo? Con quali voci, con
quali forze? Sansonetti, giornalista d’altri tempi, da una vita ai vertici dei
quotidiani “rossi” storici (dall’Unità, a Liberazione, al Riformista, fino a
Gli Altri) mette in riga le questioni e porta in edicola una nuova testata. Un
foglio di carta di nome Garantista. Uscirà il prossimo 18 giugno 2014
(tra poco scoprirete con che formula) e nasce dalle ceneri di Liberal (a
volte il destino…) del forzista Ferdinando Adornato e andrà a giocare la sua
partita in questo mare impazzito che è il mercato di oggi, con la pubblicità
che è una bestia in estinzione, i lettori (o clienti) che hanno scoperto l’eden
del gratuito sul web e i fondi pubblici che sono diminuiti fino quasi
scomparire. Il Garantista riparte senz’altro dal contributo pubblico, ma quello
– si sa – ormai ti può dar sangue per vivere un po’. E poi?
Direttore, ci vuole coraggio a fondare un giornale di
carta in questo caos di oggi. Dove lo ha trovato?
«Nella consapevolezza che esiste uno spazio, sebbene
non vasto, dove poter affermare dei ragionamenti diversi. Delle idee.»
E perché crede di potercela fare? In fondo i numeri
dicono che il mercato dell’editoria è un disastro.
«Sì, ma la questione è più complessa. Io credo che la
crisi dei giornali vada indagata a partire da due ragioni. La prima è
senz’altro l’avvento di internet. Il web ha dato una direzione diversa al
mercato, della quale si deve prendere atto e sulla quale non si ha potere di
intervento. La seconda ragione è che in Italia si è smesso di pensare. Non ci
sono idee. Non ci sono novità da decenni. L’ultimo caso “innovativo” è forse
Repubblica, ed era il 1976. Poi più niente, a parte il Fatto Quotidiano,
forse.»
Perché forse?
«Perché per me non è una grande novità. E’ la diretta
conseguenza di una via giustizialista, sulla quale camminano anche gli altri,
dal Corriere in giù.»
E il Garantista? In un’intervista rilasciata proprio
al sito del giornale di Padellaro e Travaglio, Adornato, l’editore di Liberal,
dice che lei ha proprio in mente un anti-Fatto. E’ vero?
«Ma no. Noi siamo molto più di un anti-Fatto, siamo un
anti-tutto. Vogliamo affermare un giornalismo che va alla verità. E la parola
stessa Garantismo suona come un insulto di questi tempi. Noi però quest’idea la
portiamo sul mercato ben sapendo che è minoritaria. Siamo sicuri, tuttavia, che
conquisteremo il nostro spazio sapendo che di voci nuove c’è bisogno.»
Ma facciamo un po’ di storia. Quand’è che la sinistra
s’accoda ai magistrati? Quand’è che nasce quest’amore?
«Di certo negli anni ’70. Quando si decide di
cancellare la lotta armata. Anzi, si può dire di più. C’è una data precisa che
è la legge Reale (la legge 152 del 1975, Disposizioni a tutela dell’ordine
pubblico, ndr).»
Poi?
«Il giustizialismo nasce lì e poi l’idea si consolida.
Il giustizialismo è la realizzazione di un’alleanza che si salda, ancora di
più, con Tangentopoli, quando si decide di cacciare quelli che fino ad allora
avevano governato con la clava.»
Ma da dove nasce questa tendenza? Quale origine
culturale ha?
«E’ un rigurgito stalinista. E’ da lì che proviene
questo metodo. E’ lì che affonda la sua radici.»
Lei, nei suoi pezzi, differenzia i liberal dai
liberisti. I primi sono tipica espressione della sinistra americana: pensano
che lo Stato debba intervenire sul mercato per garantire le libertà di tutti. I
secondi sono di destra, e pensano che il mercato si debba autoregolamentare, e
che sia questa la vera libertà. Detto questo: Renzi è un liberal o un
liberista?
«Lui bisogna aspettarlo al varco. Non lo so che sarà.
Ma di certo l’andazzo è lo stesso. Se così non fosse, Renzi non parlerebbe
usando termini come “li cacciamo tutti a calci”. Non le pare? Ho l’impressione
che siamo sempre lì: la sinistra non sa scegliere e piega l’idea di libertà al
mercato. E’ più facile così.»
A proposito di questioni immanenti. Lei dopo
Liberazione è andato a dirigere dei giornali in Calabria. Che idea s’è fatto
del Sud?
«Il Mezzogiorno è la parte più povera del Paese. I
meridionali non hanno strumenti di potere. E in quell’area non c’è stata alcuna
affermazione della cultura dei diritti. Le condizioni attuali sono il risultato
di questo.»
E allora? Che si fa?
«Si deve ripartire dallo stato di diritto. Non ci sono
altre vie. Il Nord ha portato al Sud le prigioni, le manette, nient’altro. Ma
alla modernità s’arriva con un’altra cultura. Quella che noi, soprattutto in
quelle aree, cercheremo di proporre. Anche se – ripeto – la nostra è una
battaglia minoritaria.»
Che macchina state mettendo in piedi? Che giornale
sarà?
«Dei contenuti ho già parlato. Per quanto attiene
all’organizzazione, le redazioni saranno distribuite a Reggio Calabria, a
Cosenza, a Catanzaro e poi a Roma. Il giornale nazionale avrà 24 pagine. E le
redazioni locali 20 pagine, per ognuno dei posti che ho menzionato. Puntiamo
molto sulla dimensione locale.»
A Cosenza ci sarà dunque un giornale diverso rispetto
a quello di Reggio Calabria.
«Esatto. E sarà un giornale di 44 pagine. Avremo, poi,
16 pagine in più per Napoli e Salerno. Quindi i posti dove avremo una presenza
più capillare, all’inizio, saranno la Calabria e la Campania.»
E sul web?
«Sarà online il sito del giornale e sarà possibile
scaricare il pdf, abbonarsi e acquistare le copie, come è ormai consuetudine.
La nostra sfida, ripeto, si gioca sulle idee non sulle tecniche.»
IL GARANTISMO E' DI SINISTRA, scrive Simonetta Fiori su “La Repubblica”.
«Perché tanta resistenza all'indulto, soprattutto tra
gli elettori democratici? Credo si tratti di un meccanismo perverso, che porta
a sospettare sempre e comunque della politica. Un pregiudizio che naturalmente
può essere spiegato con l'ultimo ventennio della storia italiana. Quello
proposto dal presidente della Repubblica è un atto sacrosanto, che andrebbe
illustrato nella sua banale umanità».
Settantatré anni, fiorentino, Luigi Ferrajoli è il
filosofo del diritto italiano più conosciuto all'estero, forse più famoso nella
scena internazionale che nel nostro paese. Ha scritto saggi fondamentali che
hanno definito una nozione complessa di garantismo, non solo come sistema di
divieti e obblighi a carico della sfera pubblica a garanzia di tutti i diritti
fondamentali (dunque sia i diritti di libertà che i diritti sociali), ma anche
come sistema di divieti e obblighi a carico dei poteri privati del mercato. Il
suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui
è considerato tra gli eredi più autorevoli, ed è proseguito negli anni Sessanta
in veste di giudice dentro Magistratura democratica, dove confluivano culture
politiche diverse. Ferrajoli s'identifica nel "costituzionalismo
garantista" che poi significa «una scelta di campo a sostegno dei soggetti
più deboli, come impongono i principi di giustizia sanciti dalla Costituzione».
Le sue posizioni - anche nel terreno delicatissimo della riforma della giustizia
- sfidano alcuni tabù della sinistra. Difende la separazione delle carriere tra
giudice e Pm, ferma restando l'assoluta indipendenza dei pubblici ministeri dal
potere politico («La sinistra è caduta in un equivoco, anche perché all'epoca
di Craxi la separazione fu proposta con l'intento di assoggettare i pm
all'esecutivo»). E questo suo ultimo prezioso libro-intervista con Mauro
Barberis, filosofo del diritto altrettanto competente, contiene giudizi
originali sulla crisi della politica e della democrazia, di cui il tema della
giustizia è parte essenziale. A cominciare dal "populismo penale" in
voga nel dibattito pubblico (Dei diritti e delle garanzie, il Mulino).
Professor Ferrajoli, che cos'è il populismo
giudiziario?
«È il protagonismo dei pubblici ministeri poi passati
alla politica. Sono rimasto colpito dall'esibizionismo e dal settarismo di
alcuni magistrati, sia durante i processi che in campagna elettorale. Ho
proposto anche una sorta di codice deontologico che richiama ai principi di
sobrietà e riservatezza, oltre che al dubbio come costume intellettuale e
morale. Temo molto quando il magistrato inquirente è portato a vedere nella
conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria
credibilità professionale. Cesare Beccaria lo chiamava "il processo
offensivo", nel quale il giudice anziché essere un "indifferente
ricercatore del vero" diviene "nemico del reo"».
Lei sottolinea il carattere "terribile" del
potere giudiziario.
«Sì, carattere "terribile" e
"odioso", dicevano Montesquieue Condorcet. È il potere dell'uomo
sull'uomo, capace di rovinare la vita delle persone. Purtroppo i titolari di
questo potere possono cedere alla tentazione di ostentarlo. Cosa
sbagliatissima. Quanto più questo potere diventa rilevante, tanto più si richiede
una sua soggezione alla legge e al principio di imparzialità. Un obbligo che è
a sua volta fonte di legittimazione del potere giudiziario».
Il populismo penale, le fa notare Barberis, è di fatto
l'opposto del garantismo.
«Sì, in realtà l'opposto del garantismo è il
dispotismo giudiziario, che è presente in tutte le forme di diritto penale con
scarse garanzie, in particolare caratterizzate - come avviene in Italia - da
una legalità dissestata».
Cosa intende?
«È il vero problema oggi. Disponiamo di leggi
incomprensibili perfino ai giuristi, mentre la chiarezza è l'unica condizione
della loro capacità regolativa, sia nei confronti dei cittadini che nei
confronti dei giudici. Per prima cosa il Parlamento dovrebbe far bene il
proprio mestiere, ossia scrivere le leggi in modo chiaro e univoco. È questo il
solo modo per contenere l'arbitrio del potere giudiziario. Un obiettivo che non
si raggiunge certo riducendo l'autonomia dei giudici e dei pubblici ministeri a
vantaggio del potere esecutivo».
Forse è anche per difendere la propria autonomia
minacciata che alcuni magistrati sono arrivati ad eccessi.
«Non c'è alcun dubbio. Derisi e pressati da un potere
irresponsabile, alcuni talvolta hanno agito per autodifesa. Anche la
martellante campagna diffamatoria promossa dalla destra sull'uso politico della
giustizia ha finito per inquinare la stessa cultura giuridica dei magistrati
che hanno reagito in modo corporativo all'accusa. Non dimentichiamoci che in
tutti questi anni la riforma della giustizia ha ruotato esclusivamente attorno
ai problemi personali di Silvio Berlusconi, riducendosi a un assurdo corpus
iuris ad personam. E la parola garantismo ha finito per significare la difesa
dell'impunità dei potenti».
Un'accusa che viene rivolta alla sinistra, anche da
parte non strettamente berlusconiana, è di aver cavalcato quel potere terribile
a cui alludeva prima, sostituendo Marx con le manette.
«Mi sembra una ricostruzione ingiusta. La
caratterizzazione "giustizialista" - parola che detesto - di una
parte della sinistra è stata provocata dallo scandalo dell'anomalia di questo
ventennio. Non la giustifico, ma posso spiegarla. Siamo stati governati da una
persona che è al centro di una quantità enorme di processi, una parte dei quali
forse infondata ma altri fondatissimi. Da qui anche l'enorme aspettativa verso
il diritto penale, da cui si pretende che assicuri l'eguaglianza delle persone
davanti alla legge».
Non è così?
«Purtroppo da luogo dell'eguaglianza formale il
diritto penale è diventato il luogo della massima diseguaglianza. Quella che
viene più facilmente colpita è la delinquenza di strada, con la sostanziale
impunità dei potenti. Quasi il 90 per cento delle condanne per fatti di
corruzione negli ultimi vent'anni è stato inferiore ai due anni, con
conseguente sospensione condizionale della pena. Anche l'evasione fiscale di
fatto resta impunita».
Forse questo spiega perché l'opinione democratica tema
l'indulto. Per una volta che viene applicato il principio dell'eguaglianza dei
cittadini davanti alla legge, si teme che l'indulto possa cancellarlo.
«Sì, ma si tratta di un sospetto tanto velenoso quanto
infondato. Naturalmente spetta al Parlamento evitare che a beneficiare
dell'indulto siano i reati di corruzione o frode fiscale, reati che non sono
mai entrati nella tradizione dell'amnistia. E, per le ragioni che ho ora
esposto, a chi si oppone al provvedimento bisognerebbe ricordare che la
criminalità dei colletti bianchi è di fatto assente dalle carceri. Le celle
sono piene di povera gente, tossicodipendenti e immigrati clandestini.
Sarebbero loro a trarne vantaggio».
Anche per snellire la macchina giudiziaria, lei ha
proposto la soppressione di alcuni reati come l'immigrazione clandestina. Pochi
giorni fa è cominciato in Senato l'iter per la sua abolizione.
«I nostri tribunali sono paralizzati da un marasma di
figure di reato che si potrebbero cancellare. Quello di immigrazione
clandestina è poi un'assoluta vergogna. Teorizzato nel 1539 da Francisco de
Vitoria, per giustificare conquista e colonizzazione del nuovo mondo, lo ius
migrandi è rimasto per secoli, fino alla Dichiarazione universale del 1948, un
principio fondamentale del diritto internazionale. Oggi che il processo s'è
invertito - sono le popolazioni povere da noi depredate a venire nei nostri paesi
- il diritto s'è capovolto in reato. Il risultato è una terribile catastrofe
umanitaria. Potrei definirle "le leggi razziali" di questi anni».
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
PUOI
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