LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI E LE RIFORME
TRUFFA.
Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI,
LEGULEI ED IMPUNITA’”, un capitolo è dedicato alla Responsabilità Civile dei
magistrati.
Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e
sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del
Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente.
Giangrande sui vari aspetti dell’impunità in Italia ha pubblicato un volume ““IMPUNITOPOLI,
LEGULEI ED IMPUNITA’”.
LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI E LE RIFORME
TRUFFA.
Negli ultimi 50 anni si valutano 5 milioni di cittadini
vittime di errori commessi dai magistrati. Responsabilità civile dei magistrati? 7 casi accertati in 26 anni. Tanto
poi paga l'assicurazione con polizza del costo di 150 euro circa l'anno. Il
filtro posto dalle toghe contro le toghe funziona. Ecco i dati dell'avvocatura
generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema
sanzionatorio non funziona. Dal 1988,
quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare
la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con
il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410
cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili»
di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario.
Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco
degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni
giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno
lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non
confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle
scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Ci si arriva
con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che
in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un
condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto
di revisione. Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni
ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del
doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti,
riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la
macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati
"freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale
diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti
fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa
per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di
diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con
pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna
l’imputato fino alla sentenza definitiva.
"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai
mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci
vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa
accada". Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e
poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta
detenzione. L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma
giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore
giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a
chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non
esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario
andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia
cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo
2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato
di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe
dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.
Si stima che, dal 1988, circa 50 mila
persone siano state vittima di ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che
dal 1991 lo Stato abbia risarcito per circa 600 milioni di euro questi
innocenti - viene spiegato a tempi.it dal presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio
Spigarelli Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la
responsabilità civile dei magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati.
Com’è possibile e cosa ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al
ribasso. Si tenga conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato
concede il risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale
dell’ex detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile
è fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa ovviamente
la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità solo per dolo o
colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi ad esempio tutti
gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi, per cui se anche ci
fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso, come inventarsi una
legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità civile.
Entriamo nel mondo degli insabbiamenti e dell’impunità. Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei
magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si
occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole
e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”,
scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione
disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio
tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione
degli illeciti.
Le varie sanzioni previste dalla legge sono:
a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei
doveri del magistrato;
b) la censura, che è una dichiarazione formale di
biasimo;
c) la perdita dell’anzianità, che non può essere
inferiore a due mesi e non superiore a due anni;
d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico
direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non
superiore a due anni;
e) la sospensione dalle funzioni, che consiste
nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il
collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;
f) la rimozione, che determina la cessazione del
rapporto di servizio.
Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento
d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione
più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in
taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio
può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano
gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di
particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati,
l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di
provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato
viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni
disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto
dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri
magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non
dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo
diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno
(badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero
che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste
le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre
magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe
far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.
Di quei 267 condannati dal Csm:
a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla
sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti
disciplinari);
b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b
dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità
(temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei
provvedimenti disciplinari);
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi
capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti
d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice
tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008
esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della
giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede
del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi
vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione
che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la
pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel
2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103,
poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati
in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio
i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se
i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli
aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo:
all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la
censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi
(inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e
materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è
ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè
il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati
dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati
dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti
con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).
Di queste “condanne”:
- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il
66%!);
- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);
- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a
due anni di anzianità (circa l’11%);
- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);
- 2 sono stati i rimossi (l’1%);
Ora, che cosa si evince? Una cosa
semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che
vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia?
Vediamolo in numeri semplici:
- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che
l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione
non venga passato al Csm;
- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare
sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;
- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe
9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.
Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille
di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte
del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati
con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno
immaginarvi.
Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di
sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è
previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione.
Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio,
alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498
(il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce
è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...
9. E la responsabilità civile?
Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in
teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della
Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per
l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e
attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a
risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole
(con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati
l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in
Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento
danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati
inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5%
sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono
state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16
sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte,
pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.
10. Da zero a uno: meno di 0,5.
Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione
non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea,
stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza
del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le
valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la
credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle
Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e
cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la
competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe
a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va
da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion
fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e
l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare
fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario
Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta
delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di
riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima
della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da
noi.
Magistratura italiana: verità e omissioni.
L'Associazione Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il
documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati
raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto
talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La
Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno,
cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se
stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e
rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della
Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini.
Chi giudica i giudici? Nessuno a quanto pare, perchè
non sono trasmesse le notizie dei procedimenti a carico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella
seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare in oggetto, (CSM.
Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995) che di seguito si riporta:
“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il
Consiglio Superiore della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed
ai Procuratori della Repubblica:
a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con
plico riservato al Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché
di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere
rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio;
b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto
dall’art. 129 disp. att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il
Consiglio, oltre che dei fatti cui il procedimento si riferisce e del
suo inizio, anche del suo svolgimento, nelle varie fasi e nei
diversi gradi, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono
rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle
indagini e/o per la sicurezza delle persone;
c) di trasmettere di loro iniziativa i
provvedimenti più rilevanti e quelli conclusivi nelle diverse fasi e nei vari
gradi dei procedimenti e dei processi a carico di magistrati.
Con la deliberazione in data 17 maggio 1995,
concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio
ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea
di principio del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del
magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il
mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del
potere-dovere di vigilanza.
Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di
adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le
dovute comunicazioni ed il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso
la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti
alla conclusione della indagine preliminare.
Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono
ad una informativa sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono
di loro iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né
i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli
uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni
utili al Consiglio.
Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non
siano nel medesimo tempo fatte ai titolari della azione disciplinare, con
evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del Ministro di
Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale della Repubblica presso la
Suprema Corte di Cassazione.
Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere
le proprie funzioni e si traduce in uno spreco di attività di comunicazione,
richiesta, sollecitazione, ecc.."
Chi giudica i giudici? Si chiede Enzo Rosati su
“Panorama”. Meglio di qualsiasi convegno, meglio di ogni polemica tra politici
e magistrati, la realtà, se conosciuta, apre gli occhi all'opinione pubblica su
come funziona la giustizia in Italia. E cioè male. Un solo lato positivo: molti
hanno potuto rendersi conto dell'esistenza e dell'importanza di vari, differenti
e stavolta antagonisti ruoli e livelli di indagine e giudizio anche in
un'inchiesta all'inizio, prima dell'arrivo in tribunale. Procura, polizia
giudiziaria, giudice delle indagini preliminari, tribunale del riesame. Ognuno
ha giocato la sua parte, e questa è stata evidenziata, analizzata, sviscerata.
Finora agli occhi dell'opinione pubblica esisteva in pratica una verità: quella
dei pubblici ministeri, cioè della procura. Dell'accusa. Un indagato diventava
quasi automaticamente un colpevole. Un indagato messo in galera, poi, un
colpevole doppio, perché il carcere in nessun altro modo era (e purtroppo è)
percepito se non come l'anticipo della "giusta" pena.
"Giusta" sulla base delle indiscrezioni fatte filtrare dalle stesse
procure e dalla polizia giudiziaria. Un circuito perverso, è stato detto
inutilmente mille volte; la condanna morale e materiale emessa non da un
giudice ma da una parte in causa. Quanti si ricordano della presunzione
d'innocenza, che nessuno può essere dichiarato e considerato colpevole prima
dei tre gradi di giudizio? Quanti tra la gente comune sanno che anche l'operato
di una procura è soggetto alla verifica di un gip e di un tribunale del
riesame? Non è certo la prima volta che un'inchiesta viene sconfessata, una
sentenza ribaltata. Non raramente si è assistito a un contrasto così forte a
palese sui fondamenti stessi di come si debba condurre un'indagine, di come si
possa mettere in carcere una persona o semplicemente additarla al pubblico
sospetto. È evidente che qualcuno ha sbagliato. La procura? I carabinieri? Il
gip? Il Tribunale del riesame? Può capitare. Ma che cosa suggerirebbe la
logica? Che chi sa di non disporre di prove e indizi certi per accusare una
persona di un reato si rimetta al lavoro per capire gli errori, coprire le lacune
o, se è convinto di ciò che fa, andare avanti. Ma soprattutto che taccia. Non
per punizione, ma perché lo impongono l'etica professionale, il dovere
d'ufficio, il rispetto degli altri e il semplice buon senso. «Non commentiamo,
non rilasciamo dichiarazioni, proseguiamo il nostro lavoro». Ottima idea.
Smentita 24 ore dopo da una raffica di interviste. E che interviste. 1) far
capire che il gip è forse troppo giovane ed esuberante, e per questo «non ha
dato adeguatamente conto del lavoro dei carabinieri»; 2) che la procedura del
Tribunale del riesame «è del tutto nuova»; 3) che «a forza di dubbi finiremo
per dubitare che un delitto ci sia stato. Meno male che abbiamo prove
incontestabili che ci sia un moti. Mi scuso della battuta macabra, però...». Nomi,
persone, vite private. Tutto in piazza. E non per il lavoro della stampa; no,
con il sigillo di magistrati che forse pensano di risolvere così contrasti e
vendette interne. Perché proprio questo si intuisce dietro il profluvio di
dichiarazioni, di allusioni, di «non mi sembrerebbe generoso», di «non vorrei
dirlo», di «non mi faccia fare nomi». E lasciamo stare criminologi e psichiatri
vari, con la verità in tasca da settimane: la loro unica scusante è che non
sono pubblici ufficiali. Il problema ora è: qualcuno pagherà per gli errori?
Chi è ancora in grado di risolvere credibilmente le indagini? Certo, questi
contrasti dimostrano che la magistratura ha una dialettica al proprio interno e
ciò può essere considerato una garanzia per i cittadini. Purtroppo una sfilza
di precedenti dimostrano che la situazione della giustizia non è rassicurante.
C'è dunque qualcosa che non va. Senza considerare i processi vip, quelli ai
politici, è la giustizia che riguarda la gente comune che non va. Ma i
magistrati, come categoria (anzi, come corporazione), continuano ad
autoassolversi. Non accettano riforme, non accettano di essere giudicati, se
non da loro stessi. Ma come si vede i giudici sbagliano, e dunque il nodo è
inesorabile: chi giudica i giudici?
Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive
Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una
nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il
contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori?
Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una
risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la
risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i
magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione
che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di
potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a
che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un
emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità
civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo
di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione
manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di
civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col
referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di
italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i
giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso
strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato
dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai
pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il
27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia
di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb
che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria
posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3
mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per
i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè,
la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è
più vasto di quello che può sembrare.
Chi controlla i controllori? Questo è il
punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La
parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il
metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è
quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”,
ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva
a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo
della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio
nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo
sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della
magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e
procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e
credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle
regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano
anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve
riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e
smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il
sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità
morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio
del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello
dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti
nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne
controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e
misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che
trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un
certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il
dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà
mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro
caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di
amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà
dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a
quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento
di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie
private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli
obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si
viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse
appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui
pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il
processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari
dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno
tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e
sanzioni. A quando la rivoluzione culturale?
Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.
Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati
paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che
modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati
nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta
Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio
delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati".
Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere
risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave,
parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In
caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che,
quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e,
soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente.
Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato
dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci
esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre
venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si
possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della
stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo
invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il
nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani
maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe
essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con
la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul
tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un
quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno
fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?
Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra
indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in
Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la
maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame
sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle
toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca
Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive
l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto
le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180
i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo
e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2
della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni
giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla
quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo
Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la
maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere
d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo
sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio
palese al Senato.
LA RESPONSABILITA' CIVILE IN EUROPA. La responsabilità civile secondo l’Unione Europea.
Colpa semplice e dolo sono forieri di responsabilità.
L’Ue all’Italia: se i giudici sbagliano, lo Stato paga,
scrive Guido Scorza su “Il Fatto Quotidiano”. È incompatibile con la
disciplina europea il principio stabilito nella legge italiana secondo il quale
lo Stato non risponde nei confronti dei cittadini per gli errori
commessi dai giudici – con provvedimenti definitivi e, quindi, non ulteriormente
impugnabili – ogni qualvolta si tratti di un errore di interpretazione della
legge e/o di valutazione delle prove ovvero non vi sia la prova che i
magistrati hanno agito con dolo o colpa grave. È questa la conclusione cui è
pervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea all’esito
di un procedimento promosso dalla Commissione nei confronti del nostro Paese.
L’Italia, “escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i
danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione
imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale
violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di
fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale
responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave… è venuta meno agli obblighi
ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli
Stati membri per violazione del diritto dell’Unione
da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.”
Inequivocabile la posizione della Ue: non c’è ragione per la quale lo Stato
debba sottrarsi al principio del “chi rompe, paga”, quando a
“rompere” – o meglio a violare i diritti di un cittadino – siano i giudici. A
leggere la sentenza, peraltro, si scopre una circostanza curiosa e, al tempo
stesso, antipatica. Prima di avviare il procedimento dinanzi alla Corte di
Giustizia che ha poi portato alla sentenza di condanna dell’Italia, facendoci
fare la solita pessima figura, la Commissione ha dapprima ripetutamente
sollecitato il nostro Governo a fornire spiegazioni con lettere del
febbraio e dell’ottobre del 2009 e, quindi, con una comunicazione del 22 marzo
2010, lo ha diffidato dall’adottare una serie di provvedimenti per riallineare
il diritto interno a quello dell’Unione. Il nostro Governo, tuttavia,
evidentemente preoccupato di questioni ben più serie legate alla sorte dei
processi contro il premier, non ha mai risposto. Curioso
che l’ex premier sempre pronto a chiedere la testa di questo o quel magistrato
non abbia condiviso la battaglia di civiltà giuridica promossa da Bruxelles e
vergognoso che un Paese si permetta il lusso di ignorare comunicazioni su
questioni tanto delicate provenienti dalla Commissione Ue. A questo punto,
però, giustizia è fatta: se i giudici sbagliano – con una sentenza definitiva -
lo Stato paga senza eccezioni e limitazioni. All’Italia, tocca
ora adeguarsi alle regole Ue a pena, in caso contrario, di pesanti sanzioni
economiche delle quali, francamente, non si avverte il bisogno. Peccato
che una regola tanto elementare ce l’abbiano dovuta prima spiegare e poi, visto
il nostro ostinato silenzio, imporre i giudici europei con una condanna.
LA RESPONSABILITA' CIVILE IN ITALIA. La responsabilità civile secondo l’Italia. Colpa
grave e dolo sono forieri di responsabilità, ma solo se rilevata dalle stesse
toghe contro i colleghi.
Si dice spesso che in nessun Paese europeo esista e sia
prevista la responsabilità diretta del magistrato, ma in essi non c’è neppure
un articolo 28 della Costituzione che espressamente la preveda; né in nessun
altro Paese europeo i pubblici ministeri hanno l’autonomia e l’indipendenza che
hanno quelli italiani, dato che in tutta Europa gli stessi rimangono – chi più,
chi meno – al riparo dal potere esecutivo. Una volta chiuso il processo, nulla
impedisce che si possa agire nei confronti del magistrato, non allungando in
tal modo alcun tempo né moltiplicando le cause. È utile ricordare che a oggi la
categoria della colpa grave è stata identificata dai giudici di legittimità in
maniera talmente restrittiva e spesso miope che, nella realtà, è stata resa
invocabile in sparuti casi. In definitiva, la Corte di Cassazione ha sempre
fatto rientrare le ipotesi giunte alla sua attenzione o in un ambito
prettamente interpretativo facendolo poi sfociare nella inammissibilità, o
interpretando la colpa grave con il carattere aberrante dell’interpretazione.
La responsabilità è un valore assoluto – non può essere un privilegio a danno
degli italiani – pertanto è sacrosanta l’introduzione della responsabilità
civile personale dei magistrati e, nel farlo, si tenga ben presente che lo
stato della giustizia in Italia è tale per cui, lungi dal “confidare” in essa,
si è tutti esposti ad iniziative giudiziarie discrezionali e variabili da Paese
incivile. Nel 1987, sulla scia del “caso Tortora”, più dell’80% degli
italiani votò perche fosse introdotta la responsabilità civile dei magistrati.
Un anno dopo, dietro l’impulso dell’allora Ministro della Giustizia Vassalli
nacque la legge del 13 aprile 1988 sul “risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio nelle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei
magistrati“.
Il 2 febbraio 2012, il colpo di scena con Governo battuto
a scrutinio segreto. La Corte di
Giustizia aveva chiesto, anzi “intimato” più volte all’Italia di
cambiare la legge Vassalli a causa della sua mancata corrispondenza con quanto
previsto dal diritto comunitario poichè la responsabilità andava estesa anche
agli errori commessi dal magistrato per un’interpretazione errata delle norme
europee e per una valutazione sbagliata di fatti o prove. In realtà, questo è
stato il pretesto per modificare invece un principio ben più rilevante per il
nostro ordinamento: non più solo lo Stato a rispondere degli errori commessi
dal magistrato ma anche la responsabilità diretta del giudice,
con conseguente risarcimento del danno. In particolare, l’emendamento
Pini approvato dalla Camera stabilisce che “chi ha subito un danno
ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento”
di un magistrato “in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa
grave nell’esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia”, possa
rivalersi facendo causa sia allo Stato che al magistrato per ottenere un
risarcimento.
Invece il Governo Renzi, con il Ministro Orlando
propone una contro riforma.
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMUNICATO 4 AGOSTO 2014.
Un corretto funzionamento della responsabilità civile
dei magistrati costituisce un fondamentale strumento per la tutela dei
cittadini ed un necessario corollario all’indipendenza ed all’autonomia della
magistratura. Il meccanismo previsto dalla legge Vassalli adottato in esito al
referendum abrogativo del 1987 ha funzionato in modo assolutamente limitato. La
legge, infatti, pur condivisibile nell’impianto, prevede una serie di
limitazioni per il ricorrente che, di fatto, finiscono per impedire l’accesso a
questo tipo di rimedio e rendono poi aleatoria la concreta rivalsa sul
magistrato ritenuto eventualmente responsabile. Si tratta, quindi,
d’intervenire per rendere effettivo questo strumento. Un’ulteriore esigenza di
intervento è rappresentata dalle pronunce della Corte Europea di Giustizia, che
sollecita una maggiore effettività nelle procedure previste per il
riconoscimento delle responsabilità conseguenti alla errata applicazione del
diritto comunitario da parte del giudice.
Ampliamento dell’area di responsabilità. L’intervento sull’attuale disciplina di settore riguarda
in primo luogo il profilo dell’ampliamento dell’area di responsabilità su cui
possa far leva chi è pregiudicato dal cattivo uso del potere giudiziario, in
linea con il diritto dell’Unione europea che include le ipotesi di violazione
manifesta delle norme applicate ovvero manifesto errore nella rilevazione dei
fatti e delle prove. In secondo luogo la responsabilità sarà estesa, nella
ricorrenza dei medesimi presupposti, al magistrato onorario. I giudici popolari
resteranno responsabili nei soli casi di dolo.
Superamento del filtro. Uno degli obiettivi del progetto è il superamento di
ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato,
che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del
pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività giudiziaria.
Certezza della rivalsa nei confronti del magistrato. L’azione di rivalsa nei confronti del magistrato,
esercitabile quando la violazione risulti essere stata determinata da
negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria.
Incremento della soglia della rivalsa. Sarà innalzata la soglia dell’azione di rivalsa,
attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo dell’annualità dello
stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato fino alla metà della
medesima annualità. Resterà ferma l’assenza di limite all’azione di rivalsa
nell’ipotesi di dolo.
Coordinamento con la responsabilità disciplinare. Saranno rafforzati i rapporti tra la responsabilità
civile del magistrato e quella disciplinare.
Per armonizzarsi con l'Europa, scrivono in via Arenula,
bisogna innanzitutto includere tra le ipotesi di responsabilità civile del
giudice «la violazione manifesta delle norme applicate ovvero il manifesto
errore nella rilevazione dei fatti e delle prove», una sorta di punizione per
la negligenza grave. Punizione che riguarderà sugli stessi presupposti anche i
magistrati onorari, mentre i giudici popolari (cioé i cittadini aggregati alle
Corti d'Assise) resteranno responsabili solo per i casi di dolo. Nel progetto
dell'esecutivo salta il filtro a protezione dei magistrati: una volta che lo
Stato sia stato condannato a riparare il danno da denegata/errata giustizia,
«dovrà» esercitare l'azione di rivalsa contro la o le toghe responsabili,
azione che in sostanza diventa «obbligatoria». La rivalsa dello Stato sarà, da
un punto di vista patrimoniale, «illimitata» nei casi di comprovato dolo del
magistrato, mentre se gli sia addebitabile solo una negligenza lo Stato potrà
rivalersi solo fino alla metà (oggi è un terzo, ma l'azione non è obbligatoria)
dello stipendio annuale. Resta comunque esclusa l'azione diretta del cittadino
nei confronti del giudice. Le linee guida creano infine un legame diretto e
necessario tra responsabilità civile e azione disciplinare. Una condanna per
negligenza costerà al giudice anche un procedimento amministrativo che, pare di
intuire, non potrà prescindere dall'esito della prima. Quanto alla riduzione
del filtro per l'azione volta a ottenere il risarcimento, «bisogna stare
attenti perché è alto il rischio di azioni strumentali, cioè di reazione a un
provvedimento sgradito del magistrato. Se si toglie il filtro, occorre evitare
la proliferazione di azioni infondate, attraverso disincentivi o forme di
sanzioni», ha detto il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli».
“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha
fatto marcia indietro”. Esordisce così il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del
Partito Socialista Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama,
interpellato dal Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe
alle linee guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di
responsabilità civile dei magistrati. Buemi, che è relatore della norma al
Senato e che sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n.
1070, spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato
“è molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia,
dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al
50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro
della Giustizia Andrea Orlando è previsto che il risarcimento per chi ha subito
il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del magistrato al
momento in cui sono avvenuti i fatti. “Una briciola di incremento – commenta
Buemi – rispetto a una situazione che prima era irrisoria. Stiamo infatti
parlando di qualche migliaio di euro di incremento, passando dal 30% al 50%
dello stipendio, e cioè a 25/30 mila euro di risarcimento del danno, in più col
vincolo del prelievo mensile di un massimo del quinto dello stipendio”. Il
risarcimento previsto dal ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a
un danno che potrebbe essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare
ai magistrati del civile, c’è una non proporzionalità, tra il danno arrecato e
la sanzione applicata”, osserva Buemi. Un discorso che vale anche per i
comportamenti che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati –
spiega ancora Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti
prolungati nel tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di
coloro che li hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli –
ricorda il senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma
nessuno ha avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’è e nessuno c’è
l’ha con i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo
alle preoccupazione dell’Anm – inoltre è sempre un giudice che deve stabilire se
un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue
funzioni”. Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai
colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del
Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di
recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un recupero
al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità – ribadisce Buemi –
tra il danno arrecato e l’azione di concorso all’indennizzo della parte che ha
subito il danno, un indennizzo che non può essere irrisorio”.
Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani,
intervistata da Andrea Barcariol su “Il Tempo” accoglie positivamente le linee guida sulla riforma
della Giustizia ma con una grande riserva sul testo finale: «Dubito che rimanga
così». Ampliata la responsabilità civile dei magistrati, in linea con le
direttive europee, anche se non ci sarà responsabilità diretta.
Soddisfatta?
«Si tratta di una serie di intenzioni che mi sembrano
piuttosto serie. Essendo passati 27 anni da quando il popolo italiano decise
che voleva la responsabilità civile dei magistrati (legge Vassalli ndr), mi
auguro che questa sia la volta buona».
Si aspetta dei cambiamenti tra la bozza e il testo
finale?
«Le pressioni che farà l’Anm (associazione nazionale
magistrati) saranno pesanti, come è normale in uno Stato dove non è affermata
in modo chiaro la separazione dei poteri. Basti pensare a tutti i magistrati
fuori ruolo che sono distaccati, in particolare presso il ministero della
Giustizia. Affermare la responsabilità civile è giusto ma è necessario
intervenire anche in altri settori come quello dell’obbligatorietà dell’azione
penale che oggi lascia completamente nelle mani della magistratura la scelta dei
processi da celebrare e quelli da far cadere in prescrizione che sono circa 140
mila all’anno».
Il presidente Sabelli dell’Anm ha già parlato del
rischio di cause strumentali.
«Saranno sempre i magistrati a giudicare... Cause
strumentali ci possono sempre essere, a volte sono strumentali quelle che
vengono fatte nei confronti dei cittadini che subiscono processi inutili».
Quali sono gli aspetti che la convincono di più del
testo?
«Voglio vedere quanto regge il testo rispetto alle
pressioni, ciò dimostrerà anche la determinazione del governo. L’aver previsto
la violazione manifesta del diritto è un passaggio importante su cui c’era
forte opposizione da parte dei magistrati. Sull’azione di rivalsa è vero che è
sempre indiretta però lo Stato deve obbligatoriamente rivalersi nei confronti
del magistrato quando c’è una negligenza inescusabile».
Quindi, secondo lei è stato centrato l'obiettivo
dichiarato di togliere le limitazioni del ricorrente per facilitare l’azione di
rivalsa?
«Se il testo rimane questo mi sembra un enorme passo
avanti, ma io ne dubito».
Hanno troppo potere i magistrati...
«Comandano loro. Loro si scelgono i reati da perseguire
e quelli da far cadere in prescrizione».
La responsabilità civile dei magistrati? Il Governo
esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la
responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato
sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto
ha approvato la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto
lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano
inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…
La Camera ha dato il 2 febbraio 2012 l’ok
alla norma sulla
“responsabilità civile dei giudici” con un voto trasversale: 264 sì. Anche
parlamentari di Pd, Idv, Terzo polo e gruppo misto quindi hanno votato a favore
dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini. “Partendo da un
pronunciamento della Corte di giustizia europea, introduce il principio per cui
«chi ha subito un danno ingiusto da un magistrato in violazione manifesta del
diritto o con dolo o colpa grave» possa chiedere il risarcimento non solo allo
Stato ma anche al «soggetto colpevole», ovvero al giudice che l’ha mandato
ingiustamente in carcere o che gli ha causato problemi materiali, morali e
psicologici” La responsabilità
civile diretta
preoccupa i magistrati. Per ora, se sbagliano, è lo Stato a punirli (può
prelevare non oltre 1/3 dello stipendio), scrive “Tempi”. Dal 1988 al 2012, i
casi in cui è stata applicata la responsabilità (indiretta) sui magistrati si
contano sulle dita di una mano più un dito: 6. La giustizia è chiaramente
blanda con le toghe. E ciò sembra confermato da una recente sentenza sulle
punizioni dei magistrati delle Sezioni Unite della Cassazione. Nelle
motivazioni di una sentenza di aprile 2014, depositate ieri, a poche ore dal sì
della Camera all’emendamento Pini, le toghe supreme affermano che è troppo penalizzante
la legge che obbliga il trasferimento di un giudice o di un pm per ogni
condotta contraria al suo dovere di magistrato, anche se il magistrato in
questione ha violato i suoi doveri. Per questo la Cassazione ha chiesto un
parere alla Corte Costituzionale. La Cassazione si è espressa sul caso di un
magistrato del tribunale di Cesena (anonimo) che nell’autunno 2010 dimenticò di
liberare due persone dalla custodia cautelare. Soltanto 56 giorni dopo la
scadenza dei termini di custodia, i due cittadini furono liberati dal giudice.
Il caso finì al Csm, che condannò il giudice di Cesena al trasferimento di sede
per avere agito «con negligenza inescusabile» e perché «arrecava un ingiusto
danno ai predetti imputati che sono stati ingiustificatamente ristretti sine titulo
per un mese e venticinque giorni». Il giudice, prosciolto dall’accusa di «grave
violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», ma
“condannato” al trasferimento, fece ricorso in Cassazione. Nella sua difesa in
Cassazione, il giudice condannato ha spiegato che la dimenticanza era un fatto
di «scarsa rilevanza», che «era conseguenza delle carenze organizzative
dell’ufficio». Un fatto che «non aveva compromesso la sua immagine di
magistrato». La risposta della Cassazione? Ha sospeso la pena del magistrato e
bocciato la legge che prevede il trasferimento dei giudici, impugnandola
davanti alla Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione, infatti, «la misura
del trasferimento di sede o di ufficio è particolarmente afflittiva per il magistrato,
sotto il profilo sia morale che materiale». Non può dunque essere sempre e
automaticamente prevista, nemmeno nel caso in cui il magistrato violi i
diritti degli imputati e i propri obblighi di «imparzialità, correttezza,
diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio».
Responsabilità civile dei giudici. Il leghista Pini:
«Non si può difendere l’impunità assoluta delle toghe».
Intervista di Francesco Amicone su “Tempi” al
deputato del Carroccio, che primo firmatario dell’emendamento approvato alla
Camera. «I magistrati paghino i propri errori come tutti. Almeno in caso di
dolo». È passato alla Camera (187 voti a favore contro 180) l’emendamento
che riscrive l’articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati. Di
seguito riproponiamo la lettura dell’intervista che facemmo a Gianluca Pini
(Lega), primo firmatario. Perché i magistrati che sbagliano non
dovrebbero risarcire le vittime dei propri errori? «Non si fanno sconti a tutti
gli altri professionisti, anche quelli che svolgono lavori delicati», denuncia
il deputato leghista Gianluca Pini a tempi.it. «Dal medico chirurgo al
professore di scuola – spiega il vice-capogruppo alla Camera della Lega Nord –
se un dipendente pubblico (e ovviamente un privato) commette uno sbaglio nello
svolgimento delle proprie mansioni, può subire una causa civile. I magistrati
sono gli unici a godere dell’immunità». La deduzione di Pini, che ha
presentato alla Camera un emendamento sulla responsabilità
civile dei magistrati, è logica: «Se la
legge è uguale per tutti, i magistrati devono rispondere direttamente del
proprio operato e risarcire le vittime dei propri errori dolosi».
Onorevole Pini, la sua “domanda di
eguaglianza” è disattesa dal 1987, quando a favore della responsabilità civile
delle toghe si espresse il 80 per cento degli elettori. Ad oggi, né il
Parlamento né la Corte costituzionale hanno saputo dare risposta: perché?
«Quando
si parla di magistrati si cerca di stare molto attenti e molto spesso si
finisce per non cambiare nulla. I detrattori della responsabilità diretta
oppongono a una legge giusta, che toglie l’immunità totale ai magistrati,
fantomatiche questioni sull’indipendenza e sull’autonomia dell’ordine, messe in
discussione – secondo questa curiosa teoria – dal desiderio di giustizia delle
vittime degli errori giudiziari. Mi chiedo cosa c’entri la terzietà dei
magistrati con l’impossibilità per un cittadino di fare causa a pm e giudici
che commettono errori dolosi nei suoi confronti».
Si dice, per esempio, che i giudici,
spaventati dal rischio di una causa, avrebbero timore di fare il loro mestiere.
«Mi
scusi, fare il chirurgo forse è un lavoro meno delicato del magistrato? Fra
l’altro, i magistrati sono già dotati di una copertura assicurativa e a
giudicarli sarebbero altri magistrati. L’obiezione è risibile».
All’estero però non si prevede la
responsabilità diretta dei magistrati.
«Vero,
ma si dimentica di ricordare che all’estero rimuovere giudici e pm che
sbagliano è molto più semplice. In Inghilterra, per esempio, basta il voto
della maggioranza del Parlamento. Vogliamo farlo anche in Italia? Vogliamo
introdurre la chiamata diretta dei giudici da parte di organismi politici?
Oppure vogliamo eleggere i procuratori e i giudici come avviene in alcuni stati
americani? Da noi è l’organo di autogoverno dei magistrati a giudicare i
comportamenti dei magistrati e a decidere della loro carriera. Ed è risaputo
che non sia particolarmente duro nei confronti dei colleghi che sbagliano. In
qualche modo, bisogna riequilibrare il sistema».
Il suo tentativo di “responsabilizzare”
giudici e pm è già stato affossato nel 2012. E poche settimane fa è stato
bocciato un secondo emendamento sulla responsabilità civile, grazie ai voti del
Movimento 5 Stelle. Perché lo ripresenta?
«Perché
il voto si terrà a scrutinio segreto, come è avvenuto nel 2012, quando
l’emendamento passò alla Camera grazie ai voti della sinistra. Non diventò legge a causa
dell’opposizione del governo Monti e del Pdl. Ora vedremo cosa diranno i nuovi
partiti Forza Italia e Ncd. Il mio emendamento è molto meno “duro” nei
confronti dei pm e dei giudici rispetto a quello bocciato di recente. Spero che
possa essere accolto anche dai 5 Stelle. Beppe Grillo un tempo si diceva a
favore della responsabilità diretta dei magistrati: ha cambiato idea, come sul
reato di immigrazione clandestina?»
In cosa consiste l’emendamento?
«Si
tratta dell’applicazione di una sentenza di condanna allo Stato italiano della
Corte di giustizia europea e mai applicata. La Corte denuncia che in
Italia è quasi impossibile chiamare in causa i magistrati che non applicano una
norma comunitaria favorevole al cittadino, nonché che la normativa è inefficace
e restrittiva nel sanzionare il singolo magistrato. L’emendamento si limita a
estendere la norma in applicazione della sentenza a tutti i casi e non solo in
merito a quelli europei, aggiungendo che l’errore per chiamare in causa –
direttamente – il magistrato deve essere fatto con dolo. In pratica, un giudice
può essere chiamato in sede civile dal cittadino solo se va volontariamente
contro la legge. Nel 2013 l’Europa ha
aperto una procedura di infrazione per non aver
applicato la sentenza. Cosa vogliamo fare?»
Sta dicendo che lo Stato oltre a rispondere
per gli errori dolosi dei magistrati potrebbe essere costretto a pagare una
multa perché non si rivale su di loro? Cosa impedisce ai magistrati italiani di
indignarsi di fronte a questa iniquità che danneggia i cittadini contribuenti e
favorisce i colleghi che sbagliano?
«Di
certo c’è che i bravi magistrati non hanno alcuna ragione di opporsi alla
norma. Infatti si applicherebbe soltanto in caso di dolo e di manifesta
violazione dei diritto. La legge è necessaria, visto che il principio della
malatissima giustizia italiana è classificare un imputato come colpevole fino a
prova contraria. Nel frattempo i processi durano anni e, anche quando
finiscono in niente, la vita degli innocenti è rovinata. Una norma sulla
responsabilità civile diretta come questa sarebbe utile a rendere
davvero indipendente e terzo il magistrato che valuta i casi e ad
applicare la normativa europea. Servirebbe anche a eliminare qualsiasi “fumus
persecutionis”. Ci sono tanti esempi, purtroppo, di come i magistrati italiani
evitano di applicare una legge “in favor rei”, trascinando il processo fino in
Cassazione. Quando poi i cittadini si rivolgono allo Stato per ottenere i
risarcimenti e agire indirettamente sui magistrati, nella maggior parte dei
casi non succede nulla».
La responsabilità civile diretta dei
magistrati riuscirà a diventare legge? A favore ci sono anche molti esponenti
della sinistra, come Giuliano
Pisapia. Oppure prevarrà l’ala degli strenui
difensori della corporazione?
«Spero
nel buon senso. L’emendamento arriverà in Parlamento, probabilmente, nella
settimana successiva al voto per le europee. Grazie allo scrutinio segreto, la
sinistra potrà emanciparsi dalle posizioni di alcuni guardiani del sindacato
presenti nelle sue schiere, ex pm e giudici, magistrati in aspettativa, oggi
parlamentari. Non si può difendere l’assoluta impunità delle toghe, anche
quando commettono errori dolosi.
Responsabilità civile dei magistrati,
Mantovano: “Ora o mai più”, diceva l’8 febbraio 2012 a Chiara Rizzo su “Tempi”. “Qualsiasi
professionista, un medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i suoi
atti. Che lo diventi personalmente anche un giudice, che questi sia messo sullo
stesso piano di un altro professionista, non scalfisce alcun un principio di
responsabilità”. Il deputato e magistrato Alfredo Mantovano spiega perché è
giusto che un giudice paghi se sbaglia. Il deputato Alfredo Mantovano (Pdl) è
stato magistrato di Cassazione, e dal 2008 al novembre 2011 sottosegretario
all’Interno. Ora è tornato a Montecitorio, dove, lo scorso 2 febbraio ha votato
favorevolmente all’emendamento Pini: quello cioè che, con 264 voti favorevoli,
prevede la responsabilità civile dei magistrati. Dopo il voto, sono fioccate le
polemiche. A tempi.it, Mantovano spiega perché ha deciso di votare a favore del
provvedimento.
Mantovano, avete forzato la mano?
«È difficile
parlare di forzature 25 anni dopo un referendum che è rimasto praticamente
inattuato. Nell’87 gli italiani votarono favorevolmente all’introduzione della
responsabilità civile per i magistrati. Da allora, al momento di intervenire a
livello legislativo, si dice sempre che non è il momento adatto e si trova una
ragione per rinviare. Questo ha fatto sì che il parlamento, quando si è
presentata una situazione valida come quella attuale (con una sentenza della
Corte europea che chiedeva all’Italia di intervenire sul tema e una procedura
avviata nei confronti del nostro paese per l’infrazione, ndr), abbia risposto
“ora o mai più”. Abbiamo rimediato ad una situazione intollerabile».
Dopo il referendum dell’87 però è stata fatta una
legge, la Vassalli dell’88, che interviene sulla responsabilità dei magistrati
prevedendo che il cittadino possa rivalersi e costringere lo Stato a
pagare.
«Io ero
magistrato quando è uscita la legge Vassalli: l’effetto che ha prodotto è che
il giorno dopo l’entrata in vigore ogni magistrato di buon senso ha
sottoscritto una bella polizza assicurative Rc: essendo all’epoca noi
magistrati in settemila, ci fecero anche dei prezzi di “favore”, con un acconto
annuale di 120 mila lire. Con l’adeguamento oggi quell’assicurazione si aggira
sui 150 euro: persino un magistrato può sopravvivere pagandola. Il problema
della Vassalli è che quella legge ha un meccanismo così filtrato da
giustificare, alla fine, qualsiasi operato. L’emendamento appena votato non va
all’estremo opposto. Si fa valere la colpa grave del magistrato, si ampliano le
maglie per chiedere il riconoscimento di una responsabilità, ma non al punto
che il magistrato si terrorizzi, come ha sostenuto qualcuno. Lo si fa solo al
punto che anche il magistrato sia tenuto a conoscere il diritto che deve
applicare, cosa che oggi non sempre avviene. Qualsiasi professionista, un
medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i suoi atti. Che lo
diventi personalmente anche un giudice, che questi sia messo sullo stesso piano
di un altro professionista, non scalfisce alcun un principio di responsabilità».
Michele Vietti, il vicepresidente del Csm
non la pensa così. Dice che i giudici «rappresentano un unicum non paragonabile
agli altri professionisti», perché devono decidere chi abbia ragione tra due
persone. E con questa nuova norma, secondo Vietti, «non è difficile immaginare
una predisposizione a non imicarsi la parte più forte».
«Rispondo
citando due casi reali. Primo caso. Un magistrato fa spendere allo Stato
migliaia di euro in intercettazioni per un’indagine che all’udienza preliminare
crolla con decreti di archiviazione per quasi tutti gli indagati, anche a
fronte di decine di misure cautelari già emesse. Tutto questo oggi non porta a
nessuna conseguenza per i magistrati. Secondo caso. Mi è capitato di leggere
una sentenza di dichiarazione di fallimento di un’azienda. Il proprietario
dell’azienda, però, è stato citato in aula per potersi difendere nel giorno
sbagliato. Così non si è potuto difendere, è stato dichiarato il fallimento
senza che nessuno si opponesse, l’azienda è saltata in aria e i dipendenti
hanno perso il lavoro. Rispetto a questi casi concreti, cosa dice il
vicepresidente del Csm Vietti? Secondo lui questo chi risarcisce questi danni?
E perché, secondo lui, dobbiamo accollarli alla collettività?»
Le toghe però protestano. Con l’Anm in testa che dice
che questo provvedimento è incostituzionale. Perché secondo lei non è vero?
«Ho fatto il
giudice per 13 anni e l’esponente di governo per 10. Perché la mia firma in
calce a provvedimenti di governo mi espone subito alla responsabilità civile e
quella da magistrato no? Incostituzionale semmai è trattare diversamente
situazioni che rispondono alla stessa logica: due rappresentanti dello Stato
perché dovrebbero essere trattati diversamente in base al ruolo che occupano?»
In Aula gran parte delle forze politiche erano
d’accordo sulla sostanza dell’emendamento, ma hanno sostenuto che non fosse
quello il modo giusto di trattare la vicenda. Perché il Pdl non ha fatto
qualcosa in questi ultimi anni e nelle giuste sedi deputate, a cominciare dalla
Commissione giustizia?
«La stessa
presidente della Commissione alla Camera, Giulia Bongiorno, prima del voto, ha
detto che si sarebbe dovuto intervenire in altre sedi. È singolare che proprio
lei dica questo: lo chiediamo a lei, perché non lo ha fatto sinora. Non toccava
a me convocare la Commissione giustizia per intervenire prima. A me pare che
sia come se uno si rifiutasse di dichiararsi all’amato, e rinviasse sempre il
momento. Parto da una considerazione tutta politica: al momento del voto, i
partiti che avevano deciso di votare favorevolmente erano a ranghi ridotti. Ci
sono stati 60 voti dati da altri partiti: è un segnale politico pesante e
trasversale. Penso che non vada ignorato o peggio disprezzato. È questo il
momento di intervenire. Ora, al Senato, si potrà rendere il testo
dell’emendamento migliore. Non dubito che i tecnici del governo, che son più
bravi di tutti, lo sapranno fare. Ma non potrà cambiare la sostanza politica:
cioè deve rimanere il fatto che lo Stato non ha più la discrezionalità ma il
dovere di rivalersi sul magistrato. Non vedo perché nei casi di errore che ho
citato prima devono pagare i contribuenti».
Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati
in 26 anni. Ecco i dati
dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano
che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su
“Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più
realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la
situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione
civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali
dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto
che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli
che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto
i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo
dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei
confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche
colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande
sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così
rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di
malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella
complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di
ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di
aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi
presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71
sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità»
da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati
ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di
ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di
un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del
totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni
dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i
ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà
delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato
sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in
totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei
giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un
caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce,
Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10
riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno,
altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad
Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta,
Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia,
l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il
sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto.
La responsabilità civile dei Magistrati esiste dal
1988, in 26 anni solo 4 condanne. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma
le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una
nazione» Voltaire. Da quando esiste la legge sulla responsabilità civile i
magistrati non hanno mai sborsato un euro. C’è una legge che regola la
responsabilità civile dei giudici. Esiste dal 1988 ed è nota con il nome di
“Legge Vassalli”, scrive Enrico Novi su Il Garantista del 6 agosto 2014.
Quella norma prevede in teoria che lo Stato, se costretto a risarcire un
cittadino per un errore giudiziario, possa rivalersi sul giudice. In teoria,
appunto. Perché in pratica quest’ultima circostanza si è verificata zero volte.
Da 26 anni cioè non è ma successo che un magistrato abbia pagato per un proprio
errore. Il che fa comprendere per quale motivo il ministro della Giustizia
Andrea Orlando intenda rivedere la norma. Meno comprensibili sono le resistenze
opposte dall’Anm. Soprattutto se si pensa che ogni anno vengono intentate, per
esempio, decine di migliaia di cause per errori sanitari (circa 600mila dal
1994), e che di queste un terzo si conclude con una condanna. Su una cosa il
presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli batte con insistenza, riguardo alla
responsabilità civile: non vanno toccati i filtri di ammissibilità. Il che di
fatto equivale a dire che la legge Vassalli deve sopravvivere così com’è.
Perché i “filtri” – cioè la valutazione di ammissibilità delle cause per danno
giudiziario – rappresentano il punto decisivo: se non si tolgono quelli non
cambia niente. E se non cambia niente i giudici continueranno a non risarcire
un euro. Un euro che sia uno, e non è un’iperbole. Dall’introduzione della
legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, infatti, non è mai
successo che lo Stato si rivalesse su un giudice. Mai, neppure una volta in 26
anni, perché la Vassalli è dell’88. Venne approvata per recepire l’esito di un
referendum promosso dai radicali l’anno prima. Dopo 26 anni, con tutto il
rispetto del grande giurista di cui porta il nome, si può dire che quella legge
è una presa in giro. Non nelle intenzioni, evidentemente, ma nei fatti sì. In
26 anni solo 4 volte è capitato che arrivasse a sentenza definitiva una causa
di risarcimento intentata contro lo Stato per un errore giudiziario. Parliamo
di 4 volte in 26 anni, cioè in media viene condannato un giudice ogni 6 anni e
mezzo. Dopodiché neppure in queste 4 misere occasioni il giudice in questione
ha tirato fuori un soldo. Perché? Lo si deve proprio alla formulazione della
legge Vassalli. Che su un punto si è rivelata particolarmente vaga: l’obbligo
di rivalsa da parte dello Stato. Tale obbligo è formulato in modo talmente vago
che di fatto non esiste. Cosicché neppure in una delle 4 occasioni in cui lo ha
dovuto pagare un cittadino per colpa di un giudice, lo Stato ha provveduto ha
rivalersi sul responsabile. Certo, seppure lo avesse fatto, il giudice non
avrebbe comunque tirato fuori un euro dalle proprie tasche. Dalle buste paga di
tutti i magistrati italiani infatti viene trattenuta una piccola quota che
serve a pagare l’assicurazione sulla responsabilità civile. A quanto ammonta?
“Io ho smesso di fare il giudice nel 2001: all’epoca la trattenuta era di
100mila lire l’anno”, ricorda il presidente della commissione Giustizia del
Senato Francesco Nitto Palma. Oggi si arriva a circa 150 euro l’anno. Cifra
davvero bassa: per una categoria di medici particolarmente esposta alle cause
civili come quella dei chirurghi possono scattare premi assicurativi superiori
ai 15mila euro, come segnala l’Ordine dei medici di Pavia. In pratica per ogni
euro pagato all’assicurazione da un giudice, un chirurgo ne paga 100. Come si
può intuire la posizione rigida assunta dall’Anm su questa materia rischia di
perpetuare un effetto paradossale, di certo non voluto: ossia di preservare non
solo l’intangibilità delle toghe ma anche il lucro delle assicurazioni. In 26
anni di legge Vassalli le compagnie hanno occupato il tempo a stappare
champagne. Due conti: oggi a ogni magistrato vengono trattenuti in media 150
euro l’anno per la polizza; moltiplicato per i 9.000 magistrati italiani fa un
milione e 350mila euro l’anno; moltiplicato per 26 anni, pure a tenere conto
dell’inflazione, siamo intorno ai 30 milioni di euro. Una cifra regalata alle
assicurazioni, pulita. Perché come detto, in questi 26 anni le compagnie non
hanno mai dovuto pagare neppure un risarcimento. È pur vero che in qualche modo
l’interesse delle toghe coincide con quello degli assicuratori. Se infatti le
maglie della responsabilità civile fossero allargate, come vorrebbe fare il
ministro Andrea Orlando, e aumentasse il rischio di veder condannati gli errori
giudiziari, da una parte le compagnie comincerebbero finalmente a risarcire
qualche danno, dall’atra aumenterebbero anche i premi assicurativi. Cioè
potrebbe succedere che lo Stato debba trattenere dalla busta paga di un
magistrato una cifra un po’ più consistente degli attuali 150 euro. Sempre di
soldi si tratta, dunque. Di soldi e di rischi: roba da broker più che da
guardasigilli. Ecco perché nella riforma di Orlando ci sono almeno altri due
aspetti, oltre all’eliminazione dei filtri di ammissibilità, che tengono in
allarme l’Associazione nazionale magistrati. Il primo è la definizione precisa
dell’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Secondo la scheda tematica
pubblicata l’altro ieri sul sito del ministero della Giustizia, la rivalsa
sarebbe automatica non solo nel caso estremo del dolo (lo è già oggi) ma anche
di fronte a una particolare fattispecie di colpa grave: la cosiddetta “mancanza
per negligenza inescusabile”. Il secondo motivo di tensione tra governo e
giudici è l’estensione dei casi nei quali un giudice può essere citato in
giudizio: l’esecutivo pensa di recepire un’indicazione della Corte europea,
secondo cui la responsabilità civile di un giudice deve essere prevista anche
in caso di mancata adesione alla giurisprudenza comunitaria. L’Anm vorrebbe che
questa casistica venisse limitata il più possibile. Il match, come si vede, è
destinato ad andare avanti per parecchie riprese.
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso
lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione
Europea ha aperto una procedura di infrazione
contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità
civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles
si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica
regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il
legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di
dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non
sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E'
del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte
di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia
di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012
la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del
decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario
Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge
italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori.
L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un
suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare.
Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per
i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo
li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti
italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei.
La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei
giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E,
come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova
(ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante
che chiede risarcimento per il danno subito.
Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al
diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e
della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima
istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi
e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto
della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice,
insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane
avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge.
In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un
procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa.
Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione
è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo
direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La
Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due
anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per
eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima
sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla
responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle
conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi
nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali
deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato
Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile
con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge
nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro
errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato
scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto,
quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in
maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere
“manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta,
è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il
Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto
europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in
gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o
interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80%
delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari. Pronta la
replica delle toghe: guai a toccare i magistrati. Nessun "obbligo per
l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo
giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico
responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta
così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha
parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario;
non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici
perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati
membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale
magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni
tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della
responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i
magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si
tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello
dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il
privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità
civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La
Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei
confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai
magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e
magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o
colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se
non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della
Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per
aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che
fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la
legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi,
come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario
politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla
responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli
dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche
responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte
già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e
nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta
(e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri
magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le
inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più
quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del
bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento
dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta
non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al
governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i
singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è
in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in
questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle
di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche
giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista,
più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e
non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano
conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”.
Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che
si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di
aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio
l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare
senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero
dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe,
invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei
giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”.
Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo
alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra
magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è
troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa
buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono
eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di
essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di
"concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice
Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune
responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca
operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a
resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere
nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga
negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di
scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può
trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma
soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della
magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché
proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i
giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva
e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha
indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei
principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica
la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il
discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo,
l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio
dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si
lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che
fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John
Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono
lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto
seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi,
ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa
che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
La negazione dell’errore giudiziario e la
idolatria dei magistrati. E’ certo che gli
umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di
chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese
l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E'
innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti
è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è
risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte. Sin dal Corpus iuris
il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella
17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare
giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali.
La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella
provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto
di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena
era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il
plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel
1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al
conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del
giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della
responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della
responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un
danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un
magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo
Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà
positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in
giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona,
ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un
quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai
cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un
regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117
del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non
si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per
responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con
cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello
Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora
avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale
approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta
esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali
norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità
dei giudici. Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia
deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana,
secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi
dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo
Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione
al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità
(articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la
quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale
interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità
del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è
però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un
giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini
perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti
o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa
attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre
gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve
sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di
risarcimento. Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla
funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi
giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo
riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua
dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate
all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti),
dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se
stesso?
Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati
paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che
modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio
delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli
sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al
pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno
qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro
responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa
semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando
promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che
travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che
stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo
scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una
responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque
anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono
contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa
opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati,
sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro
ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni
è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere
responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la
nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema,
dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di
secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con
un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?
Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per
timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe
battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per
gli errori dei giudici. Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra
indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in
Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la
maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame
sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle
toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca
Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive
l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto
le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180
i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo
e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2
della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle
funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una
questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un
privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi
da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta,
minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è
occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il
premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.
Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto
"un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli,
ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente
impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche,
questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con
l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì
ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione
diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento
occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte
all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti
che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio
del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte
dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che
prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato,
rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della
maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus
all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale
Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni
giudizio. Se è giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più
efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo
con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero
errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre
un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le
giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento
approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto
per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario
posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o
colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia
può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per
ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce
dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La
norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà
popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la
parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta
alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua
sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì
modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto
Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di
mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento
esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano
maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso
- aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in
modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza
Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i
contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata
azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e
gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente
la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto
vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5
Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato
fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.A fine
aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei
magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini
e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato,
l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo.
Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce
magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia",
dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha
contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla
responsabilità civile dei giudici e quindi a battere il governo, 187 a 180.
"Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge,
"non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio
con il centrodestra".
E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è
in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità
civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La
responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a
Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra
esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza
di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su
“L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd
piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato,
senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere
“strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla
Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio
La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan
(e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in
Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che
introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo
cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece
che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della
legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi
classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla
necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come
farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge
comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la
sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata
dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica
all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado,
dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un
grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo
Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in
commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi,
“proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto
vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti
pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente
vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre
firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era
stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012,
a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al
testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era
segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era
invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è
vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e
meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la
responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato
compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della
Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità
civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del
centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli
che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque,
un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui
vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al
Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema
sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque
stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del
Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile
diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in
asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora
la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire
quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come
di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a
porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché
c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il
cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”.
Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una
pericolosa ambivalenza.
I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci
ed in malafede. Toghe sporche. Pd e
M5S bocciano la responsabilità delle toghe. In commissione Giustizia si forma
una nuova maggioranza. Il Pd vota un emendamento del M5S che boccia la
responsabilità civile dei magistrati, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Guai
a toccare la magistratura. La sinistra si schiera compatta e boccia il disegno
di legge sulla responsabilità civile dei magistrati fortemente voluto dal
centrodestra. Democratici, grillini ed ex Cinque Stelle hanno approvato in
commissione Giustizia del Senato l’emendamento degli stellati che cancella
l’articolo 1, cuore del testo del ddl. "Per i seguaci di Renzi e Grillo - tuona
il senatore di Forza Italia, Lucio Malan - i magistrati devono continuare ad
essere gli unici cittadini che non subiscono alcuna conseguenza per i danni
provocati dai loro errori, anche se clamorosi". "Siamo al paradosso.
Ma qual è la maggioranza di questo governo?". A chiederlo è la senatrice
di Forza Italia Elisabetta Alberti Casellati. Perchè sistematicamente in
commissione Giustizia il Partito democratico vota insieme al Movimento 5
stelle, mentre Ncd, Udc e Scelta civica vengono a trovarsi all'opposizione. Lo
stesso schema si è verificato oggi. Con un colpo di mano in commissione
Giustizia a Palazzo Madama, piddini e grillini hanno affossato il ddl sulla
responsabilità civile dei magistrati votando un emendamento del gruppo Cinque
Stelle che sopprime il cuore del provvedimento. "A parole i grillini
dicono che la responsabilità dei magistrati va affermata - continua la
Casellati - non si può continuare così. Quando le promesse prendono il posto
dei programmi vuol dire che andiamo verso la decadenza".
Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in
teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della
Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per
l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e
attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a
risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole
(con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati
l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in
Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento
danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati
inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5%
sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono
state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16
sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte,
pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati. Da zero a uno: meno di
0,5. Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit,
indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un
indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del
sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le
valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la
credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle
Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e
cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la
competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe
a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va
da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion
fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e
l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare
fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario
Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta
delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di
riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima
della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da
noi.
La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i
giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la
responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti
colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il
Giornale”. Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili
da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino
nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva
abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con
regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della
responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla
incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non
dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse
forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale
e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso
Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad
altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di
equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni
fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge
Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e
tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino
vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli,
infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un
comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal
magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia»
possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il
magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il
magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a
responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di
valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle
fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi
eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile
l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della
responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le
censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un
dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo
principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come
il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa
rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici»
vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere
giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la
magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un
emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il
risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie
anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione
del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile
che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente
esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare
felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta
italiana.
Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per
l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema
giudiziario. Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo
grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania.
Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione
viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di
“L’Espresso” nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela
particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il
potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al
giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta
come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla
politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede
che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente
dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile.
Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore
della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono
state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle
più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate
negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro
colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono
uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti
tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa
la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e
pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal
Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini
ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti
male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in
Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti
factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7.
Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma
almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle.
Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato,
passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che
stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra
il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921
notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498,
cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati
sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici
ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%.
Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla
responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di
essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117
dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state
proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe
specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate
inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in
attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero
l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora
pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte.
Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando
stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal
lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su
questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le
parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della
giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un
calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati.
La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10
anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei
giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi,
in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati.
Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare
privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.
I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del
referendum Enzo Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di
malagiustizia a causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco
dopo la sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo
scopo di "rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione
civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati". La
responsabilità civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro
ordinamento, nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80%
degli elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu
semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema. Anche
lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci troppo a
pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e dove una
sentenza civile ci mette mediamente 8 anni per arrivare in porto, ci
permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo, perché
applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per cento altre
strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i magistrati possono
candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura (ed ovviamente non
rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i ministeri, appare evidente
quanto sia inopportuno questo intreccio fra esecutivo e giudiziario, anche sul
piano della separazione dei poteri, così spesso invocata a proposito ed a
sproposito. Chi è contrario a questa norma sottolinea come in questo modo i
magistrati non si sentirebbero più liberi di svolgere la loro azione penale,
temendo di dover pagare (in senso lato e in senso letterale) per ogni loro
errore.
E a proposito di privilegi, benché non sia mai stata
applicata la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988
varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane
sono riuscite anche a stipulare un accordo molto vantaggioso con le
assicurazioni. Siglato da una parte dall' ANM e dall'altra dalla
BNL Broker Assicurazioni: con soli 138,60 euro all’anno, si sono così
messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria
l’eventuale vittima di errori giudiziari. Eventualità invero remota visto
che la legge voluta da Vassalli e Craxi (a cui gli interessati
dimenticarono di attestare eterna gratitudine), mette a carico della
collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non
si sa mai.
Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è
chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il
magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata. Per i poveri mortali
il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca
danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di
la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano,
da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa
grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.
Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e
codardi. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal
1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso
di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge,
non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta delle
toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune obiettivo
di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era considerato un
attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti,
cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che introduce la
responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di persona, come
avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè l’emendamento alla
legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal segreto l’hanno sostenuta
in massa a destra come a sinistra, come probabilmente addirittura da alcuni
esponenti dell’IDV. Quei furbetti del governo Monti, per bocca del
Guardasigilli, hanno fatto la parte degli indignati perché anche a loro i pm
fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto al parlamento di votare contro. Poi,
smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl, si sono augurati, sempre per bocca
della ministra della Giustizia Severino, che il Senato bocci la legge. I
magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi pilatescamente dal governo dei
professori e da una parte della sinistra che dopo averli usati in chiave
antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno poco da urlare, le toghe. Non si
capisce perché possano essere toccati presunti privilegi di tassisti, benzinai,
farmacisti, pensionandi e non i loro. Del resto la Camera non ha fatto altro
che accogliere, con 25 anni di ritardo, la volontà degli italiani che in un
referendum del 1987 avevano (invano) deciso che i magistrati dovevano pagare
personalmente per i loro errori e per dolo o colpa semplice. Sulla
responsabilità civile la Camera vota in linea con l'Europa, facendo
passare un emendamento della Lega che prevede la possibilità di fare
ricorso contro giudici solo nel caso agiscano con dolo o colpa grave. Una posizione
sacrosanta, che garantisce il giusto processo e tutela i cittadini e, questa
l'indicazione dei vertici Ue, può sanare un grave difetto di sistema della
giustizia italiana che allontana gli investitori stranieri. Ecco perché
migliorare il processo civile può significare più competitività e non solo più
"civiltà" (basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo
Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e
arresti preventivi illegittimi, senza contare gli errori giudiziari.
Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera
ha approvato l'emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro
il parere del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l'emendamento è
passato con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader
Idv Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai "forconi" da parte
degli italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di
Montecitorio "la vendetta della Casta" nei confronti della magistratura.
Anche l'Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri criticando
la decisione dei deputati. Si sa. In Italia i magistrati dovrebbero applicare
la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche emanarla. La norma prevede che "chi ha subito un danno ingiusto
per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario
posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o
colpa grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici,
gli ingegneri, ecc.) nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di
giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole
per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce
dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "Ai
fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del
diritto - si legge nel testo presentato dal deputato Pini - deve essere
valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che
caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare
riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al
carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità
dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea,
si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata
eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato
l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo,
del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè se
abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell'Unione europea".
Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo
l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la
statuizione vivente, semmai si acclamerà l'errore da parte di un suo collega
(sic), mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori. "Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4
condanne di giudici", ha spiegato Enrico Costa (Pdl)
dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di
dolo e colpa grave. "Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state
dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70
attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano
ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte". Il governo,
come scritto, si era detto contrario all'emendamento leghista ribadendo però
"l'impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel
quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di insieme
nella debita sede e in maniera organica". Lo ha ribadito il ministro per
le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del
voto, spiegando che "la legge comunitaria mal si presta ad affrontare
tematiche di respiro più ampio rispetto al mero recepimento di normative. La
sentenza della Corte di Giustizia Ue richiamata dall'emendamento - ha aggiunto
- si riferisce a questioni di diritto europeo". Con l’approvazione
dell’emendamento è finita con Antonio Di Pietro a gridare contro una
«maggioranza trasversale piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare
una «norma incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto
alle «più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare
l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del
leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati
modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al
cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente
sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno
l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha
scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd. In
mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero, ministro
per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al provvedimento.
Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento all’interno della
legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della Corte di giustizia
europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia, «uno dei pochissimi
Stati occidentali che non permette ad un cittadino che ha subìto un’ingiustizia
o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero, però, commette l’errore di
schierare l’esecutivo contro l’emendamento. Meglio affrontare la materia,
spiega, «in una logica di insieme, nella debita sede e in maniera organica». Un
autogol perché di lì a poco Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega
di votare a scrutinio segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di
un tema che «incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto,
i deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento
passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il
finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver
disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia maggioranza»,
rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi che Fabrizio
Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I numeri gli danno
ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e l’intero gruppo Misto)
disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre, scontava 55 deputati assenti e
12 in missione. Conclusione: il testo non sarebbe potuto passare senza i
franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una ricostruzione sposata da Di Pietro,
che infatti denuncia l’esistenza di «cinquanta traditori che hanno votato in
modo difforme dai loro gruppi. E cinquanta è un numero troppo grosso perché
siano tutti di un solo gruppo: vanno cercati tra quanti si erano dichiarati
contro l’emendamento Pini. Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il
governo, incalzato dall’Anm che parla di «ritorsione contro la magistratura»,
non ci sta e invoca un intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo
atto della volontà del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa
discutere qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della
Giustizia, che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader
dell’Udc, risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati
aspettino a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex
sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non vogliono
questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di legge organico
al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il governo dia
seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che sostiene
l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono passate
inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di
Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le poltrone
di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo
Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere
Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di Giovanni
Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio. Negli anni
Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la giustizia”,
altra corrente di sinistra delle toghe.
Anche i magistrati italiani sbagliano, come tutti i
comuni mortali. Spesso violando la legge. E’ raro, però, trovare il nome di un
magistrato inquisito, sbattuto nelle prime pagine delle cronache. Casi unici,
poi, sono i magistrati condannati dai colleghi. A questa genuflessione si sono
adeguati i nostri parlamentari, bacchettati dalle Autorità comunitarie. Sussiste
la responsabilità dei magistrati anche per colpa semplice secondo la Corte di
Giustizia europea. Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi
dello Stato è regolato dalla legge. L’art. 3 della Costituzione esplicita che
tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano
immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è
riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti, non privati. Analizzando
l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si
denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è
sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il
lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura,
risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e
deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i
progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio, o lesioni, o disastro
colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc. L’avvocato, il
commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo
cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche. Al dirigente pubblico, o
al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al
Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e Sottosegretari,
che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa
per il risarcimento del danno riconosciuto. Da quanto detto pare che la legge
sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però,
che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati. I magistrati sono
liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per
ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo
rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona. I magistrati sono
liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore
giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma
non sono perseguiti per calunnia e diffamazione. Al cittadino, che per anni ha
subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto
prosciolto, ovvero da persona offesa ha visto il reato archiviato o prescritto per
inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti
d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è
impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi. C’è stato un
referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che
formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i
magistrati che sbagliano devono risarcire i danni. Invece, il rappresentante
eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2
della legge n. 117/88 ha previsto:
«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un
comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal
magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per
diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei
danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da
privazione della libertà personale.
2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può
dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né
quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da
negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza
inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli
atti del procedimento;
b) la negazione, determinata da negligenza
inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli
atti del procedimento;
c) l’emissione di provvedimento concernente la libertà
della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».
Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase,
della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il
rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo
ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la
parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi
inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in
cancelleria». Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non
perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo
è la stessa corporazione di cui esso fa parte. D'altronde basta poco a
giustificare un diniego di giustizia. Se, come da molti è considerato, il
magistrato è Dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai
incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice
colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la
conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato da
altro magistrato, non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma
oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente. Per il diniego di
giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa,
l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità del Magistrato, quando
amministra la giustizia, o quando è seduto in Parlamento a farsi le leggi, ma è
colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la
sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono
alla magistratura per chiedere giustizia. I magistrati devono meritarlo il
rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini
unti dal Signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del
Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello
stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad
equilibrare gli interessi in campo. L’azione di rivalsa opera solo in caso di
indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra
l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità
dello Stato. La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della
responsabilità dei magistrati e la mancata applicazione dell’art. 234 CE. Lo fa
con la sentenza del 13 giugno 2006, nel procedimento C-173/03, avente ad
oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi
dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova, con ordinanza 20 marzo 2003,
pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica Italiana. La
sentenza si inquadra in un risalente filone, nell’ambito del quale il giudice
comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato
rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in
qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato
torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento
nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina
comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva,
inoltre, rifiutato di sollevare questione pregiudiziale, ai sensi dell’art.
234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di
motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della
responsabilità civile dei magistrati). Per questi motivi, la Corte (Grande
Sezione) dichiara: “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale
che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i
danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario
imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che la
violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o
da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo
giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione
nazionale, che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di
dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad
escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in
altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto
vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa
C-224/01, Köbler” A questo punto non si può pretendere che il
cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il
diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.
LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI. TRA GARANZIE
COSTITUZIONALI, MONITI EUROPEI, SUSSULTI REFERENDARI E LEGISLATIVI. Relazione
resa dal Cons. Nicola Durante (Magistrato amministrativo) al convegno sul tema
“Giustizia oggi”, organizzato presso la Prefettura di Catanzaro il 3 dicembre
2013. SOMMARIO: 1. La disciplina vigente; 2. Principali peculiarità e
fondamento costituzionale del sistema; 3. Problematiche di compatibilità col
diritto comunitario; 4. Spinte innovatrici e proposte referendarie.
1. La disciplina vigente. La materia della responsabilità civile dei
magistrati è oggi regolata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (c.d. “legge
Vassalli, dal nome del ministro guardasigilli dell’epoca), emanata a seguito
dell’abrogazione referendaria degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., avvenuta nel
1987. In precedenza, poteva aversi responsabilità civile del magistrato solo in
caso di dolo, frode o concussione. In forza dell’art. 28 Cost., la
responsabilità si estendeva poi allo Stato, per immedesimazione organica.
Rispetto a tale schema, la disciplina vigente si fonda sul principio opposto:
l’illecito civile del magistrato obbliga verso il danneggiato esclusivamente lo
Stato che, se condannato, esercita la rivalsa nei confronti del proprio
dipendente. Analizzando per sommi capi il testo normativo, si rileva che, ai
sensi degli artt. 2 e 3 della legge, l’illecito può avere forma attiva od
omissiva (c.d. “diniego di giustizia”). L’art. 2 pone, tuttavia, tre importanti
limitazioni all’insorgere della responsabilità. Anzitutto, il danno deve avere
natura tendenzialmente patrimoniale, essendo quello non patrimoniale
risarcibile solo se conseguente ad un’ingiusta privazione della libertà
personale. Quindi, la fattispecie illecita dev’essere sorretta dall’elemento
psicologico del dolo o della colpa grave, riguardo alla quale ultima, il comma
3 dell’art. 2 tipizza quattro distinte ipotesi: a) la grave
violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione,
determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la
negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza
risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione
di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti
dalla legge oppure senza motivazione. Infine, per effetto della c.d. “clausola
di salvaguardia” di cui al comma 2, «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di
diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Secondo l’art. 4 della
legge, l’azione di risarcimento si esercita, nei confronti del Presidente del
Consiglio dei ministri, quando il provvedimento causativo del danno è divenuto
definitivo. La stessa decade, in genere, dopo due anni dal momento in cui
l’azione è diventata esperibile. Competente sul giudizio è il tribunale del
capoluogo del distretto della corte d’appello determinato a norma dell’art. 11
c.p.p., il quale deve preliminarmente valutare se l’azione è inammissibile
rispetto ai termini od ai presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4, ovvero se è
manifestamente infondata, provvedendo in tal caso con decreto motivato,
impugnabile in corte d’appello e successivamente per cassazione. Se la domanda
è ammissibile, gli atti sono trasmessi ai fini dell’azione disciplinare, che va
esercitata entro due mesi e nel cui ambito rileva anche la colpa semplice. Il
magistrato che ha causato l’illecito non può essere assunto come teste, né può
essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del
procedimento. La condanna fa stato nel giudizio di rivalsa solo se il
magistrato è intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel
procedimento disciplinare. In nessun caso, fa stato la transazione raggiunta
dallo Stato con il danneggiato. L’azione di rivalsa è promossa dal Presidente
del Consiglio dei ministri, entro l’anno dalla definitività della condanna. Il
foro è lo stesso della causa principale e la misura della rivalsa non può
superare il terzo dello stipendio percepito dal magistrato nell’anno in cui è
proposta l’azione di risarcimento. Tale limite non si applica al fatto commesso
con dolo. Se l’illecito scaturisce da una decisione collegiale, non ne risponde
il magistrato che abbia fatto constare a verbale il proprio dissenso
succintamente motivato. Detta facoltà non è in contraddizione con la generale
regola di segretezza del contenuto della discussione sulle questioni affrontate
dal collegio al fine di pervenire alla decisione, dal momento che il verbale va
inserito in un plico sigillato, le cui modalità di conservazione sono tali da
escludere la conoscibilità all’esterno dell’esistenza del dissenso.
2. Principali peculiarità e fondamento costituzionale
del sistema. La prima peculiarità del
sistema dianzi succintamente descritto deriva dalla scelta del legislatore di
traslare l’azione di rivalsa – e, cioè, il giudizio sulla responsabilità
amministrativa del magistrato – dalla sua sede naturale (la Corte dei conti) al
giudice ordinario. La deroga, per la sua specialità, opera nel solo ambito
della responsabilità civile, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 13
della legge, in presenza di un danno da reato, commesso dal magistrato
nell’esercizio delle sue funzioni, l’azione di responsabilità è esperibile
direttamente nei confronti di quest’ultimo ed anche in sede penale, mentre
l’azione – questa volta chiamata «di regresso» – dello Stato, tenuto al
risarcimento nella qualità di responsabile civile, è mantenuta in capo alla
Corte dei conti ed è assoggettata alle regole ordinarie sul pubblico impiego.
Ma ogni qual volta un’ipotesi di reato non si configuri, la controversia sul
danno erariale causato nell’esercizio di funzioni giudiziarie è devoluta al
giudice ordinario ed il magistrato può essere chiamato a rispondere solo a
titolo di rivalsa con i limiti di cui all’art. 3, salvi i casi di dolo. Questo
reca con sé importanti riflessi non solo processuali, ma anche sostanziali, impedendo che trovino efficacia, quanto meno diretta, per
la categoria dei magistrati, tutta una serie di istituti favorevoli che la Corte
dei conti applica, invece, ai pubblici impiegati in
genere, come il principio di parziarietà dell’obbligazione, la sua
intrasmissibilità agli eredi (tranne il caso di loro indebito arricchimento),
l’esercizio del potere riduttivo da parte del giudice e la definizione
agevolata della lite, ai sensi dell’art. 1, commi 231-233, della legge 23
dicembre 2005, n. 266. Venendo alla struttura dell’illecito, un’altra
particolarità consiste nel fatto che il danno cagionato dal magistrato non
determina la responsabilità di costui verso il terzo, ma quella dello Stato.
Ciò costituisce eccezione al criterio ordinario, ritraibile dall’art. 28 Cost.,
secondo cui del danno cagionato al privato sono solidalmente responsabili e
l’impiegato e l’ente pubblico di appartenenza, in virtù del rapporto
d’immedesimazione organica. Almeno apparentemente, la previsione dell’elemento
soggettivo in termini di dolo o colpa grave, e non di colpa semplice, non
modifica la regola generale di cui all’art. 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3
(T.U. sul pubblico impiego), che pure riconnette la responsabilità civile
personale dei funzionari e dipendenti pubblici – e, di riflesso, quella
dell’ente – ai soli casi di violazione dei diritti dei terzi commessi con dolo
o colpa grave. Tuttavia, a ben vedere, è la sostanza della colpa grave
desumibile dalla legge del 1988 a differenziarsi da quella di tipo ordinario, a
causa della tipizzazione dei casi in cui essa può essere ravvisata. Insomma, la
colpa grave del magistrato, lungi dal coincidere con la nozione comune di
mancato uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali
esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito,
assurge ad una sorta di lata culpa piane dolo
comparabitur, di antica memoria. Di
modo che, non basta che la violazione della legge commessa dal magistrato sia
grave, perché essa dev’essere anche ascrivibile a “negligenza inescusabile”,
dovendosi presentare come “non spiegabile”, e cioè senza agganci con le
particolarità della vicenda atti a rendere l’errore comprensibile, anche se non
giustificato. In altre parole, questa forma di responsabilità è sì incentrata
sulla colpa grave del magistrato, ma per come tipizzata dalle ipotesi
specifiche ricomprese nell’art. 2, le quali sono riconducibili al comune
fattore della “negligenza inescusabile”, che implica la necessità di
configurare un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art.
2236 c.c.: pertanto, l’errore rileva quando il giudice pone a fondamento del
suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento e
non quando ritiene sussistente una determinata situazione di fatto senza
elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però
abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di
errato apprezzamento dei dati acquisiti. Pare tuttavia rimanere nell’alveo
generale della colpa grave l’ipotesi tipizzata sub d), che si
concretizza nell’«emissione di provvedimento concernente la libertà della
persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione»; e lo
stesso dicasi per il diniego di giustizia ai sensi dell’art. 3, che dev’essere
«senza giustificato motivo». E non è ancora tutto, perché un’ulteriore
franchigia si realizza nei casi coperti dalla c.d. “clausola di salvaguardia”
di cui all’art. 2, comma 2, secondo la quale «nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di
norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». La
compatibilità costituzionale di tali previsioni non è in dubbio, avendo la
Consulta ripetutamente affermato che la legge n. 117 del 1988 rappresenta un
punto di equilibrio tra le esigenze di tutela del soggetto danneggiato e dei
valori dell’indipendenza della magistratura, della sua autonomia e della
pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria. L’indipendenza garantisce
infatti l’imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super
partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da
decidere. La disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da
renderlo immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o
sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a evitare
forme di prevenzione, timore, influenza che possano indurre il giudice a
decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza.
L’equilibrio sta, dunque, nel contemperare indipendenza e responsabilità.
Termini che solo apparentemente sembrano dare vita ad un’inconciliabile
antinomia, non potendo concepirsi che il primo si traduca in una sostanziale
irresponsabilità degli organi della magistratura o che determini la nascita di
un potere operante al di fuori dell’organizzazione statale ed al di sopra delle
sue leggi.
3. Problematiche di compatibilità col diritto
comunitario. Una prima breccia alla
conformità della legge n. 117 del 1988 col diritto comunitario si è aperta con
la decisione assunta dalla Corte di giustizia CE il 30 settembre 2003, nella
causa Köbler/Republik Österreich, dov’è stato affermato che «il
principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni
causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro
imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da
una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Infatti, questo
principio, inerente al sistema del Trattato, ha valore in riferimento a
qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato
membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha
dato origine alla trasgressione». Dunque, in base alla pronuncia, uno Stato
membro è obbligato a riparare i danni causati ai singoli, in presenza di una
violazione del diritto comunitario ascrivibile, in forma attiva od omissiva, ad
un organo giurisdizionale di ultimo grado. E’ stato inoltre notato che, a
differenza delle pregresse decisioni in materia di responsabilità dello Stato
membro per violazione del diritto comunitario da parte di organi interni, la
sentenza Köbler enuncia il criterio d’imputazione della “violazione
manifesta” e non della “violazione grave e manifesta”: cosa che lascerebbe
trapelare la volontà di ampliare i margini della responsabilità statale, quando
l’illecito è riconducibile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado. La
sentenza in parola, pur non riferendosi all’Italia, già pone il problema della
compatibilità comunitaria dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, che da un
lato prevede i diversi criteri della colpa grave (tipizzata) e del dolo e,
dall’altro, esenta dalla responsabilità per danni le violazioni commesse in
sede di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle
prove. Ma a sancire definitivamente il contrasto tra i due ordinamenti è
intervenuta, a distanza di quasi tre anni, la sentenza della Grande Sezione
della Corte di giustizia 13 giugno 2006, nella causa C- 173/03, Traghetti
del Mediterraneo s.p.a. in liquidazione/Repubblica Italiana. Le conclusioni
di tale arresto sono trancianti: «il diritto comunitario osta ad una
legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità
dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione
del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado
per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle
norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale
organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta, altresì, ad una
legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli
casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad
escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in
altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto
vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza Köbler». E non è
tutto, perché, non avendo la Repubblica italiana dato seguito alla statuizione,
la Commissione ha aperto una procedura di infrazione ai
sensi dell’art. 260 del Trattato, in base al quale «quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca
che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in
virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza della Corte comporta». Quindi, la Sezione
III della Corte, con sentenza del 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione
europea/Repubblica italiana, accogliendo il ricorso, ha dichiarato che: «la
Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano
per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto
dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado,
qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da
valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e
limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi
dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 177, sul risarcimento
dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla
responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa
incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri
per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi
giurisdizionali di ultimo grado». In particolare, la Corte ha censurato la
circostanza per cui, nell’ordinamento interno italiano, l’attività di
interpretazione di norme di diritto e di valutazione di fatti e prove è esente
da responsabilità anche nei casi di dolo o colpa grave, il che contrasta col
diritto europeo. Inoltre, quanto meno nell’interpretazione seguìta dalla Corte
di cassazione, il contenuto proprio del dolo e della colpa grave non è affatto
equivalente a quello della violazione del diritto vigente di matrice
comunitaria, ma è ben più rigoroso. Il richiamato distinguo operato dalla Corte
di giustizia ha permesso di sostenere che essa, mentre ha ritenuto radicalmente
contrario al diritto dell’Unione l’art. 2, comma 2, si è mostrata più
concessiva nei confronti del comma 1, a patto, però, che la Corte di cassazione
interpreti il requisito della colpa grave in termini tali da corrispondere al
requisito di “violazione manifesta del diritto vigente”, come fissato dalla
giurisprudenza europea. Quanto agli effetti della decisione, le conseguenze
tratte dallo stesso autore sono nel senso che, attesa la natura di fonte del
diritto attribuibile alle sentenze della Corte di giustizia e stante il fatto
che la decisione del 24 novembre 2011 è stata adottata con i poteri dell’art.
260 del Trattato, le norme interne in contrasto col diritto sovranazionale non
sono più applicabili. Questo, però, non deve condurre ad affermare un duplice
livello di tutela per il cittadino leso da condotte illegittime di magistrati:
maggiormente garantistico, quando si fa valere la trasgressione di norme
comunitarie (posto che, in questo caso, è sufficiente che la violazione si
caratterizzi in relazione ai requisiti individuati dalla Corte di giustizia nel
caso Köbler) e più severo, ove la trasgressione riguardi la legge
nazionale (occorrendo dimostrare il dolo o la colpa grave del magistrato e,
soprattutto, che la violazione non possa essere ricondotta nell’alveo
dell’interpretazione di una norma di diritto o della valutazione del fatto e
delle prove). Una tale disparità determinerebbe infatti, nel diritto interno,
un grado di protezione più basso di quello accordato alle violazioni del
diritto comunitario, ponendo il problema della legittimità del diverso regime a
fronte della medesima situazione soggettiva lesa, in relazione al canone di
uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. ed in relazione all’art.
54 Cost. che impone, al massimo livello, l’osservanza della Costituzione e
delle leggi. Non di meno, occorre osservare che la prima decisione in tema
della Corte di cassazione ha, sia pure incidentalmente, enunciato il
divisamento opposto, essendosi ritenuto che l’esclusione della responsabilità
per errata interpretazione di norme di diritto od errata valutazione del fatto
e della prova continui a valere, laddove non venga in rilievo una violazione
manifesta del diritto dell’Unione europea imputabile ad un organo
giurisdizionale nazionale di ultimo grado, essendo soltanto quest’ipotesi in
contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano, e ciò alla luce
della Corte di giustizia del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10. Dello
stesso tenore è, infine, la proposta di modifica della legge n. 177 del 1988,
inserita dal Governo nel disegno di legge comunitaria per il 2013 licenziato
l’8 novembre 2013, dove la responsabilità dello Stato per violazione chiara e
manifesta è prevista solo in relazione al diritto comunitario ed agli atti
riferibili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado.
4. Spinte innovatrici e proposte referendarie. E’ opinione diffusa che un’esegesi giurisprudenziale
ritenuta troppo “partigiana” ha progressivamente contribuito a confinare la
responsabilità civile dei magistrati ad un ruolo marginale, quasi si trattasse
dell’extrema ratio per i casi di stridente ingiustizia, infondendo nel
sentimento popolare un senso di tradimento dello spirito referendario del 1987.
In proposito, a titolo di contributo interpretativo, si è avanzata la tesi per
cui la “clausola di salvaguardia” debba trovare applicazione solo per l’error
in iudicando e non per l’error in procedendo: sarebbero così assoggettati
a responsabilità piena i casi in cui la norma violata non costituisce parametro
di giudizio, ma semplice regola di condotta processuale. In queste ultime
ipotesi, infatti, «il giudice non “decide”, ma opera la ricognizione dei propri
comportamenti leciti e doverosi, come qualunque altro destinatario di una
qualunque norma o, se si vuole, come qualunque altro soggetto il cui
comportamento sia da quella norma disciplinato. Nello stabilire ciò che egli
può o deve fare, il giudice non può “giudicare” in senso proprio, per
l’assorbente considerazione che egli non è terzo imparziale e indifferente, ma
è anzi il principale soggetto interessato all’esito del suo “giudizio”». La
teoria richiamata, senza dubbio accattivante, deve tuttavia fare i conti non
soltanto con le opinioni dottrinarie contrarie, ma soprattutto con i princîpi
tralaticiamente espressi dalla Suprema Corte, a mente della quale la clausola
di esenzione «non tollera riduttive letture, perché giustificata dal carattere
fortemente valutativo della attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte
costituzionale (nella sentenza 19 gennaio 1989 n. 18), attuativa della garanzia
costituzionale della indipendenza del giudice (e del giudizio)»; essa si
applica «senza eccezioni per le norme processuali, e dunque includendo quelle
che fanno carico al giudice d’esaminare i temi in discussione influenti per la
decisione e di dare contezza delle ragioni della decisione stessa». A muovere
verso un rinnovamento sono stati, in epoca recente, due quesiti referendari non
ammessi alla tornata del 2014 per mancato raggiungimento del quorum di
cinquecentomila sottoscrizioni, a mezzo dei quali si chiedeva l’abrogazione
della legge 13 aprile 1988 n. 117, limitatamente all’art. 2, comma 2 (la c.d.
“clausola di salvaguardia”) e/o all’art. 5 (in tema di delibazione di
ammissibilità della domanda). In ambito legislativo, un concreto tentativo di
superamento dell’assetto corrente è stato avanzato con un emendamento al
disegno di legge comunitaria del 2011 presentato dal deputato Gianluca Pini
della Lega Nord, il quale, sebbene respinto, ha trovato vasta eco nell’opinione
pubblica. Esso, in sintesi, si concretizzava nella possibilità, per il
danneggiato, di esperire l’azione risarcitoria direttamente nei confronti del
magistrato, nella sostituzione dei requisiti del dolo e della colpa grave con
quello della violazione manifesta del diritto e nell’assoggettamento a
responsabilità dell’attività di interpretazione delle norme di diritto. Ciò non
di meno, è stato notato come l’ipotesi di una responsabilità diretta del
giudice, per altro estesa all’interpretazione del diritto, si ponga in
contrasto non solo col principio di indipendenza della magistratura come
sancito dalla Corte costituzionale, ma altresì con gli auspici degli organismi
europei, contenuti nella raccomandazione del Comitato dei ministri del
Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010 n. 12 e nella Carta europea sullo
statuto dei giudici. Essa, inoltre, non avrebbe pari negli ordinamenti
giuridici avanzati, che disciplinano la materia con l’immunità assoluta propria
dei Paesi di common law (U.S.A., Gran Bretagna, Canada), o con
limitazioni ancora più rigorose di quelle previste dalla legge n. 117 del 1988
(Germania), alla responsabilità del solo Stato con possibilità di rivalsa in
ipotesi di carattere del tutto eccezionale (Francia, Belgio, Portogallo) od
addirittura con esclusione della rivalsa (Paesi Bassi), mentre, nell’unico
ordinamento che prevede una azione diretta (Spagna), vi è comunque un filtro
preventivo subordinato alla verifica di requisiti particolarmente rigidi. Per
ultimo, è stato posto in luce come, estendendosi la responsabilità del
magistrato a qualsiasi forma di violazione manifesta del diritto, si darebbe
occasione al giudice del risarcimento di valutare l’operato di giudici
appartenenti ad altre giurisdizioni, vanificando di fatto la giurisdizione del
giudice amministrativo, che verrebbe sottoposto ad un sindacato di merito ai
fini risarcitori da parte del giudice ordinario, in spregio agli artt. 103 e 113
Cost. Presso la commissione giustizia della Camera dei deputati risultano
attualmente pendenti:
- la proposta di legge C. 990, a firme Gozi, Bruno e
Giachetti, del partito democratico, presentata il 17 maggio 2013, la quale,
premesso che la combinazione dei vari filtri previsti dalla legge n. 117 del
1988 ha reso la stessa «pressoché inapplicata in più di venti anni dalla sua
entrata in vigore», mira ad abrogare la clausola di salvaguardia e la
tipizzazione dei casi di colpa grave e del diniego di giustizia, oltre che a
consentire il risarcimento anche del danno non patrimoniale, a sottoporre
l’azione di rivalsa alla giurisdizione della Corte dei conti ed a prevedere che
questa sia esercitata dallo Stato nei confronti del magistrato per il rimborso
dell’intero onere sostenuto in sede di condanna;
- la proposta di legge C. 1735, a firme Leva, Verini,
Russomando e Ferranti, del partito democratico, presentata il 25 ottobre 2013,
la quale, premessa l’intenzione «di farsi carico delle criticità che sono
derivate dall’applicazione della legge n. 117 del 1988 e al tempo stesso
cercare di recepire le indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia
dell’Unione europea», vuole sottoporre a sindacato risarcitorio l’attività di
interpretazione e di valutazione in caso di dolo, nonché di manifesta
violazione di norme di diritto ovvero di travisamento del fatto o di una prova,
che ledano i diritti fondamentali della persona, nonché eliminare le ipotesi
tipizzate di colpa grave, il filtro preliminare di ammissibilità dell’azione ed
il limite della rivalsa dello Stato sul magistrato.
Presso la commissione giustizia del Senato della
Repubblica risulta pendente la proposta di legge S. 1070, a firme Buemi,
Nencini e Longo, del gruppo autonomie, presentata il 1° ottobre 2013, dove,
premesso come «la legge n. 117 del 1988 abbia avuto, per varie ragioni, una
scarsissima applicazione», si prevede che la condanna contro lo Stato faccia
stato nel giudizio di rivalsa e nel procedimento disciplinare anche se il
magistrato non è intervenuto volontariamente nel processo contro lo Stato e si
assegna alla Corte di cassazione il compito di valutare, nelle forme di cui
all’art. 2043 c.c., la responsabilità civile dei magistrati che «salvo il caso
di ignoranza inevitabile [omissis], si discostino dall’interpretazione della
legge», assicurata dalla medesima Corte.
Va infine registrata la richiesta avanzata al C.S.M.
l’8 ottobre 2013 dai consiglieri superiori Zanon e Nappi, di apertura di una
pratica per la formulazione al Parlamento di una proposta di modifica delle
norme sulla responsabilità civile dei magistrati. In particolare, le modifiche
suggerite consistono, in sintesi, nel richiamo alla «violazione manifesta del
diritto vigente» (piuttosto che al dolo od alla colpa grave) come criterio d’imputazione
della responsabilità dello Stato e nell’abrogazione della clausola di
salvaguardia. Verrebbe invece mantenuto in piedi il vaglio preliminare di
ammissibilità dell’azione. Parallelamente, la clausola di salvaguardia ed i
requisiti del dolo e della colpa grave andrebbero a refluire nel giudizio di
rivalsa, operando a valle dell’eventuale condanna dello Stato, ossia nel
rapporto interno tra Stato e singolo magistrato.
Naturalmente a giudicare i magistrati responsabili
dell’errore grave o del dolo saranno sempre magistrati…come questi.
Milano, le cause del fisco le giudica il magistrato
evasore. Si tratta di Maria Rosaria
Grossi, assolta dalle accuse di tangenti perché ha dichiarato che i soldi erano
frutto dell'affitto in nero delle sue case. E adesso è arbitro dei procedimenti
per evasione nel capoluogo lombardo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Chi
può fare il giudice nei difficili processi contro gli evasori fiscali? In un
Paese come l’Italia può farlo anche un ex magistrato che, ritrovatosi imputato
in una storiaccia di tangenti e consulenze d’oro, è riuscito a conquistare una
meritata assoluzione spiegando di essere solo un evasore delle tasse. Questo
straordinario caso di specializzazione giudiziaria ha per protagonista una
regina del diritto italiano, Maria Rosaria Grossi, per lunghi anni giudice
della prima sezione civile e poi del tribunale fallimentare di Milano. Dopo
aver gestito centinaia di procedure milionarie, nel 2009 la sua carriera
sembrava stroncata: inquisita per tentata concussione e abuso d’ufficio,
denunciata e accusata da una dozzina di giudici e avvocati, era stata sospesa
dalla magistratura, prima in sede penale e poi per ordine del Csm. Nell’ottobre
2012, il colpo di scena: Maria Rosaria Grossi viene scagionata dal tribunale di
Brescia «perché il fatto non sussiste». A caldo, l’ex imputata si dichiara
perseguitata e annuncia che chiederà di tornare in magistratura. In novembre,
però, i giudici di Brescia (presidente Roberto Spanò) pubblicano le motivazioni
della sua assoluzione, che si rivelano molto imbarazzanti. Il tribunale infatti
scrive di aver potuto processarla, dopo un’inchiesta «tormentata e mutilata»,
solo per «un rivolo» delle tante accuse che le erano state mosse, l’unico per
il quale persino il pm si era già rassegnato a considerarla innocente. Ma nel
ricostruire tutti i fatti, proprio la sentenza di assoluzione svela che
l’allora giudice Grossi ha innegabilmente evaso le tasse, incassando «affitti
in nero» su svariati immobili di sua proprietà, addirittura «per quasi un
quarto di secolo». Il colmo è che questa non era la tesi dell’accusa: il
tribunale precisa che era l’alibi raccontato dalla stessa imputata, per
giustificare un fiume di contanti che rischiavano di esporla a reati più gravi.
Ma ora si scopre che la signora Grossi, dopo aver evitato la condanna con
quella motivazione, ha potuto tornare a fare il giudice della Commissione
tributaria di Milano. Che è quella specie di tribunale a cui la legge italiana
affida le cause per evasione fiscale, che nella capitale degli affari
raggiungono importi elevatissimi. L’ex giudice civile, in particolare, fa
tuttora parte della sezione numero 40, competente su Milano e provincia.
“L’Espresso” ha scoperto tra l’altro che, nel decidere le vertenze tributarie,
si è scontrata più volte con altri magistrati (mai indagati e tuttora in
servizio): il problema è che, dopo tutte le ingiustizie che ha passato, lei
proponeva di annullare le accuse di evasione anche quando i togati del suo
collegio erano invece fermamente colpevolisti. Per gustare tutto il sapore di
questa storia della presunta furbetta del fisco che diventa giudice degli
evasori, è sufficiente mettere in fila i soli fatti che il tribunale di Brescia
ha considerato dimostrati, pur non ravvisando alcun reato punibile. L’inchiesta
parte nel febbraio 2009, quando due magistrati molto seri di Milano raccolgono
e trasmettono a Brescia la testimonianza di un commercialista di alto livello,
Giovanni La Croce. Il professionista si è sentito raccontare da una sua cliente,
sorella del defunto avvocato Bruno Giordano, che l’allora giudice Grossi
avrebbe «riempito di incarichi giudiziari» quel legale, che era anche il suo
«amante». Un andazzo durato «circa un decennio», con i due fidanzati, giudice e
avvocato, che «si dividevano i soldi» e diventavano sempre più ricchi. La
sorella ha confidato questi segreti al suo commercialista solo dopo la morte
del fratello, quando si è spaventata perché l’allora giudice le ha portato a
casa «grosse somme in contanti». Convocata dal pm bresciano Fabio Salamone, la
sorella del legale, Marina Giordano, conferma le sue confidenze al
commercialista. E aggiunge che, quando il fratello era ormai in fin di vita, la
Grossi le chiese di aprirle d’urgenza lo studio legale, reagendo così al suo
rifiuto: «Allora ho perso tutto!». La testimone precisa che, scomparso il
fratello, era diventata «molto amica» della Grossi, che «dall’inizio del 2008»
ha cominciato a chiederle favori pericolosi: «Mi portava ogni mese 10mila euro
in contanti e in cambio mi faceva firmare assegni di pari importo, intestati
però a sua sorella». La stessa teste rivela che l’allora giudice Grossi ha
accumulato un piccolo impero immobiliare: «Cinque appartamenti a Milano, due
ville al mare in Liguria e Puglia, una casa sul Mar Rosso e una in Val
d’Aosta». Riascoltata in seguito, la testimone tenta di annacquare le accuse
all’amica, ma si tradisce confermando un retroscena: «Dopo la mia prima
deposizione, la dottoressa Grossi si è presentata di sorpresa a casa mia alle
otto del mattino. Spingendomi in cucina, mi ha detto che potevamo essere
intercettate e ha iniziato a comunicare con biglietti a cui anch’io rispondevo
per iscritto. Mi rimproverava di non averla avvisata dell’inchiesta. Io le ho
riassunto cosa avevo riferito al pm, tra cui lo scambio di denaro tra me e lei.
Il giudice Grossi mi scrisse che l’origine di quel contante erano i suoi
affitti in nero. Dopo un’ora di colloquio scritto, la Grossi ha raccolto tutti
i bigliettini e si è allontanata». Nella sentenza finale, il tribunale riporta
tutta questa ricostruzione senza alcuna obiezione, come fatti indiscutibili. Ma
poi spiega che il pm, pur avendo scovato sia gli immobili della Grossi sia il
giro di assegni (per un totale di centomila euro), ha visto cadere le sue
accuse una dopo l’altra. La morte dell’avvocato-fidanzato ha convinto la stessa
procura a non azzardare ipotesi di reato sui processi più vecchi, comunque
prescritti. Quindi il gip ha cancellato le accuse più recenti di abuso
d’ufficio. È vero che ben sei avvocati hanno confermato che la Grossi assegnava
ricchissime parcelle proprio all’avvocato Giordano. Mentre cinque magistrati
hanno testimoniato che la loro ex collega li faceva «inviperire», per la sua
ostinazione nell’assegnare i fallimenti ad altri professionisti suoi amici. Ma
i giudici di Brescia concludono che «i poteri affidati dalla legge ai giudici
fallimentari sono tanto ampi e discrezionali» da rendere «problematico»
equiparare quei favoritismi a veri reati. Sotto processo è rimasta così solo
una debole accusa di tentata concussione: nonostante le smentite dell’imputata,
il tribunale conferma che la Grossi chiese a un altro avvocato, S.A., di
«associarla nel suo studio», promettendo di «riempirlo di incarichi», ma
conclude che probabilmente era solo una battuta, «uno sfogo da bar», che quel
legale può avere equivocato «quando lei lo ha escluso dai successivi
incarichi». Insomma, nessun reato punibile. Nella motivazione il tribunale
avverte che la procura avrebbe potuto «approfondire» altre accuse, come il «riciclaggio»
(per i soldi in nero scambiati con assegni puliti) o la «subornazione» (per le
pressioni sulla testimone), ma visto che il processo riguardava solo «quel
malinteso con l’avvocato S.A», l’imputata merita la piena assoluzione. La
stessa sentenza però riconosce «sicure violazioni disciplinari» per «un
magistrato del tribunale di Milano che per quasi un quarto di secolo ha
riscosso personalmente e per contanti, da innumerevoli soggetti, canoni di
locazione non dichiarati». Proprio questa motivazione spiega perché il Csm
continua a respingere (l’ultimo verdetto è del luglio 2012) i tentativi della
Grossi di rientrare nella magistratura normale. Ai requisiti di onorabilità dei
giudici fiscali, invece, dovrebbe pensare lo speciale «Consiglio di giustizia
tributaria», che però non si è mosso. E così i processi agli evasori li decide
ancora oggi la signora degli affitti in nero.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
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