giovedì 16 febbraio 2017

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.
La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.
Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.
La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.
La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.
Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.
Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".
Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).
Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.
Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.
Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto” che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa in un determinato frangente storico sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato, e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.
Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.
Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri
Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri
"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

A cura del dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. 099.9708396 – 328.9163996
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