lunedì 23 maggio 2016

L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.

L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.
«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri.
Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Tutto è rito, e l'antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo show”. 
Scuola ed antimafia, scrive Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia all'interno della scuola, e questo è grave, sia all'esterno: cioè che noi insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre... ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti, questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai nostri alunni a muoversi da protagonista all'interno dell'universo della comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni comunicative e con scopi diversi. Solo allora saranno in grado di scegliere. Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano immediatamente date, fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso sociale verso la mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il loro impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo 'don Rodrigo aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo voto per un pacco di pasta... però se Renzo, se quell'operaio avessero avuto gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare contro l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate meglio. In un'epoca in cui le grandi ideologie, l'aggregazione politica non esistono quasi più, in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento culturale per moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la vera scommessa della scuola per la legalità.
Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa.
Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».
Perché non si fidava di nessun altro?
«Quale altro motivo ci sarebbe?».
Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?
«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».
Cosa proponi?
«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».
Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.
«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».
Su che fronte?
«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».
Avanti.
«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».
Ne sei convinto?
«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».
Questa è una notizia.
«Ma non se ne parla».
Vai avanti.
«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».
Chi non lo voleva all'Antimafia?
«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».
Torniamo ai mandanti.
«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».
21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.
«Io c'ero».
All'Addaura?
«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».
Invece come è andata?
«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».
Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?
«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».
23 maggio 1992: eri a Capaci.
«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».
Cosa ricordi?
«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».
Perché la gente non sa che eri su quella macchina?
«Mi hanno emarginato».
Chi?
«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».
La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.
«Io non la conoscevo».
In che senso?
«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».
Poi?
«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».
Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?
«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».
È incredibile.
«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».
E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?
«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».
L' emarginazione c'è sempre stata?
«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».
Per l'ennesima volta: perché?
«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».
Come sfortuna?
«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».
Chi erano?
«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».
Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?
«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».
È vero che amava scherzare?
«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».
Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?
«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».
Il presidente Mattarella non ti dà speranza?
«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».
Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?
«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».
Prego.
«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".
Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».
Costanza, credi nell' Antimafia?
«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».
Il 23 maggio che fai?
«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».
Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno da una parte all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il microfono dei giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno proprio quelli che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per raccontarci come combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire l’immensa eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza, l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle loro azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola allegra da un mi piace all’altro su facebook a commento di striscette melense e ipocrite che inonderanno la rete con una disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte.
E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche minuto, una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al sole. Ci si rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini e non dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene. Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di Corleone" alla Commissione Antimafia - quella in cui l'interrogato in merito all'esistenza della mafia, rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà anche la mafia" - la Rai certifica l'esistenza dello Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto questo scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un tizio per la nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito …". Non ho nemmeno bisogno di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria telefonica (la si può ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a conoscenza della telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno, ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per denunciare la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo, nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente verso i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile, dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”. Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere come comparse parenti e affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga all'interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si era capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di diversi anni - le soap opera possono durare decenni - in uno dei distretti a più alta disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla messa in onda della fiction Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: - la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare. L'imprenditore "proposto" nella telefonata dall'incaricato Rai verrà arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d'imprenditori polivalenti che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla mafia). Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare perché "non possiamo permetterci di abbassare la guardia". Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio 2016 su "Il Foglio".
Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”.   Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.
Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce. L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde Giobbe.
La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011.  Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
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giovedì 12 maggio 2016

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?
Viene prima il volto televisivo o il politico? Conta più la telegenia e la sfrontatezza o la competenza e la capacità? La notorietà deriva dal piccolo schermo o dalle aule parlamentari?
Ne parla il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Gli esordi televisivi di molti politici è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.
La politica come strumento dell’esibizionismo. Sono sempre di più, infatti, i volti televisivi che decidono di impegnarsi in politica.  
Dal 1948 a oggi, quanti hanno intrapreso la carriera politica tra attori, attrici, showgirl, cantanti, presentatori, presentatrici, comici, barzellettieri, ecc.? 
Syusy Blady, nota per il programma Turisti per caso: ha aderito alla causa dei Verdi e correrà per loro alle europee 2014.
Alessandro Cecchi Paone, dopo dieci anni il conduttore torna a schierarsi con Forza Italia. “Non potevo dire di no”, ha dichiarato Paone, “sono prontissimo” e correrà per loro alle europee 2014.
Elisabetta Gardini, primo volto di Uno Mattina Rai. Ci aveva provato già nel 1994 ad entrare in parlamento, candidata nel Patto Segni. Ma Elisabetta Gardini viene eletta, alle Europee, solo dieci anni dopo nelle liste del Pdl. Conquistando 34mila preferenze, in sole tre settimane di campagna elettorale. Una carriera, quella di Gardini, cominciata come attrice teatrale e continuata con l'esperienza in tv a Domenica In.
Fabrizio Bracconieri, un ex “ragazzo della III C”, noto anche per il programma Forum, correrà per le europee 2014.
Enzo Tortora al parlamento europeo nel 1984 per il Partito Radicale.
Iva Zanicchi. Da "La zingara" che conquistò Sanremo nel 1969, alla trasmissione "Ok, il prezzo è giusto". Non solo cantante e presentatrice televisiva, Iva Zanicchi ha fatto carriera anche in politica: prima è stata candidata per Forza Italia alle elezioni europee del 1999 e del 2008, senza essere eletta. Poi è subentrata al dimissionario Mario Mantovani ed è stata rieletta europarlamentare nel 2009. La candidata più votata al parlamento europeo nel 2009, battuta solo da Silvio Berlusconi. 
Enrico Montesano e Michele Santoro sempre al parlamento europeo a sinistra.
Vladimir Luxuria, dall’organizzazione del Muccassassina, una delle feste più famose di Roma, fino a diventare la prima parlamentare transgender di un parlamento europeo. Eletta come indipendente nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria si è battuta alla Camera per i diritti della comunità Lgbt.
Lilli Gruber sempre al parlamento europeo, lo schieramento quello dell'Ulivo.
Barbara Matera, dopo aver conquistato la notorietà diventando “signorina buonasera” in Rai, prima rinuncia alla candidatura alla Camera nel 2008, così da finire gli studi, poi un anno dopo accetta l’offerta del Pdl per le Elezioni europee.
Come si arriva all’elezione della velina Barbara Matera al Parlamento europeo? Quando l’uso strumentale del corpo si impone al punto da diventare esso stesso messaggio politico? 
Per raccontare questa storia è necessario fare un passo indietro al settembre 2004: Flavia Vento. "Nasce il mio nuovo movimento Figli dei fiori". Così Flavia Vento, la soubrette nota al grande pubblico grazie a Libero, il programma di Teo Mammucari, aveva annunciato su twitter il suo ingresso in politica.  
Ylenia Citino, candidata nelle liste di Forza Italia alle Europee e laureata alla LUISS. L'ex tronista, per un paio di mesi, della nota trasmissione di Maria De Filippi “Uomini e donne”.
Ilona Staller, in arte Cicciolina, una delle più note pornodive, fa il suo ingresso in Parlamento nel 1987, eletta alla Camera dei deputati nelle liste del Partito Radicale, con 20mila preferenze, seconda solo a Marco Pannella.
Gabriella Carlucci, della sua carriera televisiva si ricorda soprattutto l’edizione di Buona Domenica condotta insieme a Gerry Scotti nel 1994. Lo stesso anno in cui si iscrive alla neonata Forza Italia. Due lauree, una in letterature straniere, l’altra in Storia dell’Arte, Carlucci è stata deputata dal 2001 al 2013 nei gruppi parlamentari di Forza Italia, poi Pdl, fino all’Udc di Pier Ferdinando Casini.
Debora Caprioglio. Il ruolo da protagonista in Paprika, il film di Tinto Brass del 1991, l’ha portata al successo. E’ stato Francesco Pionati, leader dell’Alleanza di Centro, a offrirle il ruolo di madrina della seconda Assemblea nazionale dell’Adc e poi responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nello stesso partito.
Alessandra Mussolini, nipote d'arte di Sophia Loren, prova a intraprendere la stessa carriera della zia come attrice. Ma invece viene candidata giovanissima alla Camera nel 1992 nelle liste del Movimento Sociale Italiano. Poi, un percorso all'interno di Alleanza Nazionale per poi approdare nel Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi.
Ombretta Colli, cantante e attrice, dopo aver condiviso col marito Giorgio Gaber ideali di sinistra, comincia la sua carriera politica in Forza Italia, diventando prima deputata nel 1995, poi senatrice, fino ad essere eletta come Presidente della Provincia di Milano e poi nominata Sottosegretaria alle Pari Opportunità, Moda e Design della Regione Lombardia nella giunta di Roberto Formigoni.  
Anna Kanakis Miss Italia nel 1977, ha avuto anche una breve carriera politica come responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nell’Unione Democratica per la Repubblica, fondato da Francesco Cossiga nel 1998 e di cui Clemente Mastella è stato segretario.
Carlo Calenda, Ministro del Governo Renzi, ed il passato da attore. Oltre ad essere figlio, come detto, dell’economista Fabio Calenda, Carlo è anche figlio della regista Cristina Comencini. E forse non è un caso che nel suo pedigree ci sia anche un brevissimo passato di attore. Infatti, nell’estate del 1983, quando aveva solo dieci anni, ha interpretato il piccolo scolaro Enrico Bottini nello sceneggiato televisivo «Cuore», ispirato all'omonimo romanzo di Edmondo de Amicis. Il film è stato diretto dal nonno Luigi Comencini.
Daniela Santanché, quando aveva ventidue anni, nel 1983, fu intervistata da una trasmissione tv che si chiamava “Viva le donne”, condotta da Amanda Lear. Le chiesero a quale programma televisivo avrebbe voluto partecipare e lei rispose: al telegiornale. Poi le chiesero cosa volesse fare da grande e lei rispose: "il ministro del Tesoro".
Michela Brambilla. Finisce tra i più visti di YouTube il video, scovato dalla Gialappa's, che documenta i suoi primi passi in tv. La rossa del Pdl era inviata di "I misteri della notte" nel 1991: occhiali scuri e guanti di pizzo, visitava i locali notturni di Barcellona, tra topless e balli sadomaso. Per la sua entrata in politica la motivazione l’ha data Silvio Berlusconi: “E’ un’ira di Dio, una che non molla l’osso”, ha detto scherzando, ma non troppo, perché Michela è sempre stata così, una “rompiballe che non si arrende mai”, come dice lei stessa, e che quando vuole qualcosa non demorde finché non l’ha ottenuto, scrive “Affari italiani”. Lo sa anche Giorgio Medail, che tenne a battesimo la ventenne Michela nel mondo del giornalismo televisivo. Michela l’aveva incontrato a Salsomaggiore, dove, con la fascia di Miss Romagna, partecipava alle finali di Miss Italia: non vinse, ma cominciò a tempestare di telefonate Medail, finché non la prese a lavorare con lui a Canale5. Su Youtube è ancora cliccatissimo uno dei suoi servizi tv del 1991 per “I misteri della notte”, programma “esoterico” di Medail, dove Michela gira per le discoteche di Barcellona in abbigliamento dark e succinto.
Mara Carfagna. La valletta della tv. Tra i video più datati, quello del suo esordio a TeleSalerno: Mara aveva 21 anni ed era una studentessa. Presentando Carfagna, il conduttore spiega che «i suoi hobby sono il piano e il canto», «non sopporta la falsità e l’ipocrisia» e che il suo sogno nel cassetto è «danzare all’American Ballet Theatre». Di lei, Silvio Berlusconi disse: "Se non fossi già sposato, la sposerei immediatamente". Mara Carfagna, dopo la carriera televisiva, si affaccia alla politica diventando coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania. Poi viene eletta alla Camera nel 2006 e nominata nel 2008 Ministro per le pari opportunità.
E poi ci sono loro: l’aspirante Premier ed il Premier.
Matteo Salvini. «Striscia la notizia» ha scovato un video di Matteo Salvini, attuale leader del Carroccio, quando partecipò alla trasmissione «Il pranzo è servito» condotta da Davide Mengacci. Era il 1993. Capelli lunghi, pizzetto e basettoni, giacca e cravatta fantasia e qualche chilo in meno di adesso, il giovane Matteo si presentò così al conduttore che gli chiedeva la sua professione: «Sono nullafacente, iscritto all’università in attesa di fare esami».
Matteo Renzi. Da tempo circola il filmato di Matteo Renzi, quando partecipò nel 1994 alla trasmissione «La ruota della fortuna con Mike Bongiorno. Il giovane Matteo arrivato «da un piccolo paese in provincia di Firenze, Rignano sull’Arno», come dice lui stesso nel video, racconta il suo hobby: «Faccio l’arbitro di calcio a livello dilettantistico, in seconda categoria».
Sicuramente in quest’elenco molti nomi mancano. Mi scuso per loro non averli ricordati.

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