sabato 10 novembre 2018

Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.


Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.

Un indagato/imputato prescritto non è un colpevole salvato, ma un soggetto, forse innocente, NON GIUDICABILE, quindi, NON GIUDICATO!!!

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. C'è del marcio nei palazzi di giustizia. Si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma sono la prova che il sistema è al collasso, fin nelle fondamenta, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime e ripercorriamole a ritroso.

Eppure i figli di…Travaglio divulgano certi messaggi fuorvianti atti ad influenzare gli ignoranti cittadini, che poi votano ignoranti rappresentanti politici e parlamentari.

A tal proposito viene in aiuto l’esempio lampante di come un tema scottante ed attuale venga trattato dai media arlecchini, servi di più padroni.

Assolti? C’è sempre un però. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo.

TG1: ROMA PROCESSO MALAGROTTA, ASSOLTO CERRONI. Andato in onda il 06/11/2018. "Il processo sulla discarica di Malagrotta e la gestione dei rifiuti a Roma. Assolto l'ex patron dello stabilimento, Manlio Cerroni, dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti". Flavia Lorenzoni.

Nel servizio si fa cenno al fatto che il processo è durato 4 anni. E meno male che l’abbia detto. Ma lì si è fermato. Però, di seguito, il TG1 ha mandato in onda il servizio sulla strage di Viareggio e sugli affetti che la prescrizione avrebbe avuto su di esso.

Nel servizio al TG5 di questo tempo processuale di Cerroni nemmeno se ne fa cenno.

A cercare su tutta la restante stampa e sugli altri tg non si trova altro che cenni all’assoluzione, tacendo i tempi per il suo ottenimento, ma insistendo ad infangare ed inficiare la reputazione dell’ultra novantenne Cerroni.

Solo il detuperato e vituperato giornale di Pero Sansonetti mi apre gli occhi: "Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere", scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". "Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto".

14 anni sotto la scure della giustizia. Ma in tema di campagna contro la prescrizione meglio tacciare quest'aspetto della notizia, sia mai si ledano i favori dei potenti di turno.

Una censura o un’omertà assordante, nonostante: "In 30 anni ho finanziato tutta la politica. Tutta no, i Radicali non me l'hanno mai chiesto". Manlio Cerroni, intervistato da Myrta Merlino su La 7 il 6 settembre 2017.

Lo scandalo non sta nel fatto che scatta la prescrizione, dopo anni dal presunto reato e anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati anni alla magistratura per concludere l’iter processuale.

La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento.

Nonostante la verità si appalesa, certi politici, continuano a cavalcare barbare battaglie di inciviltà giuridica e sociale.

Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti. La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.

Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.

Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.

Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino.

Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti.

Il Giustizialista Giacobino è colui che una la differenziazione della giustizia. Ciò ha un che di antiquato, di classista, distinguere ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa.

Il Giustizialista Giacobino è colui che invoca una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Sì, però, va detto che la giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti.

La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara (Lucca, 18 settembre 1805 - Lucca, 15 gennaio 1888), abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».

Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri.

Ma se è mediocre la veemenza, è antica la genesi dell’istituto della Prescrizione.

E' indubbio che l'istituto della prescrizione - nato come istituto di natura processuale (la longi temporis praescriptio del diritto romano) che estingue l'azione (civile o penale) e come tale disciplinato nel diritto penale risponde in primo luogo all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, esigenza cui è evidentemente interessato soprattutto l'imputato.  Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.

“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 - Milano 28 novembre 1794). CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.





A cura del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, videomaker, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. 099.9708396 – 328.9163996

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domenica 20 maggio 2018

INVITO ALL’APPROFONDIMENTO: LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.


INVITO ALL’APPROFONDIMENTO: LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.
Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?
Tutto inizia e finisce con una E-mail.
Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube ad ANTONIO GIANGRANDE : [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.
Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.
Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube.  Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.
Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.
Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.
Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.
California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.
Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.
YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.
La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.
“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.
Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.
L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.
Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?
Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.
Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. 099.9708396 – 328.9163996
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mercoledì 2 maggio 2018

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.


Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. 099.9708396 – 328.9163996
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lunedì 2 aprile 2018

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.


Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.
Rendiconto analitico del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Sul tema ha scritto “Profugopoli. Vittime e carnefici”.
L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.
Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 
Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.
Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.
Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.
Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);
Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);
Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);
Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);
Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);
Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).
Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.
Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.
Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

sabato 3 febbraio 2018

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN C…


LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN C…
QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”.  Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.
Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 201724live.it”.  Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto.  Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.
Cosa c’è di strano direte voi.
E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?
Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”
Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.
Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto. 
Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?
Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario".  Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.
Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".
Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).
In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione.  Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.
Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".
Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.
«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.

A cura del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. 099.9708396 – 328.9163996
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