LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE
PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha
interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio
Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero
dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai
finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione
fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni
fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino,
niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha
scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di
euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco
hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le
proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali -
Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali
scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi
non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni
evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione -
ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA
evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se
si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su
400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte
hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e
reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone,
con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i
finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili,
valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono
presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385
irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre
società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a
cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un
reato). Lo stato il primo evasore
fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime
attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di
persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato?
Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con
un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i
contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi
per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e
contribuenti. Inps, Mastrapasqua
al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il
Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e
Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit
dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio
segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva
detto: "Possiamo sopportare
solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento
tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i
contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi
li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura
pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse
che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle
pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma
Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice.
Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la
più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di
pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno
in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di
queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere:
incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le
pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di
annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati
sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato
italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri
dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare
risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della
Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la
pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore
rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo
retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il
problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è
costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori
privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap,
appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda
privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla
realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e
contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi
che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il
governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano.
All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più
di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti
pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti
con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi
all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che
serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con
l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere
l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni
private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato
il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di
versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di
pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina
Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non
dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con
le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se
dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8
miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps.
Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo
ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte
compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che
tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita
e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si
chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati
chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo
Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so
io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta
versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni
pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si
tratta degli iscritti alla Gestione
Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i
versamenti previdenziali dei lavoratori
precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la
partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della
Gestione Separata sarà in attivo per
oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion
d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine,
ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa
categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare
che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio
dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre
parole, oggi ci sono in Italia quasi 2
milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti
dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per
mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda.
tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori
precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria,
alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in
trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i
requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico
per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i
giovani e i precari, che
con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel
mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente.
Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non
supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di
popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento
della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal
governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non
tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo,
ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno
vent’anni di attività per maturare la pensione.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
PUOI
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