ASSOLTI E CONFISCATI. I
CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?
Questo è un tema da
approfondire. Si può essere assolti dai magistrati giudicanti ed allo stesso
tempo essere additati come mafiosi dai magistrati requirenti e per gli effetti
essere destinatari di confisca dei propri beni, che in base alla sentenza sono
frutto di impresa legale? Da quanto risulta sembra proprio di sì. Certo è che
la stampa asservita al potere giudiziario mai approfondirà un tema così
scottante. E se poi tra i beneficiari dell’atto di confisca ci sono gli stessi
magistrati, allora……
La questione non è solo
pertinente a Palermo e la Sicilia. Partiamo da Bari. “Assolti e Confiscati”. Un
libro da leggere, per capire e meditare! “Assolti e Confiscati” è il libro che
Michele Matarrese ha dato alle stampe per raccontare, ovviamente dal punto di vista
dei Matarrese, i vent’anni della vicenda Punta Perotti, scrive Lucio Marengo.
Finalmente c’è ancor qualcuno che ha il coraggio di ribellarsi in termini
ovviamente legali, allo strapotere illimitato di parte di una magistratura che
supponendo sia stata in buona fede, ha però distrutto nella sostanza una grande
famiglia come di imprenditori come i Matarrese ed impedendo nei fatti lo
sviluppo di quello che sarebbe potuto diventare il più bello lungomare
d’Italia. Solo il fanatismo ecologico associato alla stupidità politica ha
potuto giustificare una battaglia a difesa di una fauna avicola inesistente
indicando nella zona di punta Perotti addirittura la presenza di uccelli
speciali e particolari. Non sappiamo a quali uccelli volessero riferirsi
gli ambientalisti visto che da quelle parti da sempre risultavano stanziali
transessuali, puttane, ed in più grosse zoccole di fogna ed animali sicuramente
non rari. Se avessero lasciato finire di costruire, altri imprenditori avevano
già investito denaro nella realizzazione di terziario, residenziale e tanto
verde, ma questo era di secondaria importanza dal momento che qualcuno
probabilmente aveva già deciso di costruire una lungimirante carriera sulla
pelle degli altri. Il 2 aprile 2006, dopo dieci anni di battaglie giudiziarie,
il sindaco di Bari Michele Emiliano, davanti ad una tavola imbandita, alla
presenza di ambientalisti politicamente schierati festeggiò
l’abbattimento dei manufatti di Punta Perotti con un lungo ed applaudito
brindisi. Noi eravamo lì e non esultammo perchè prendemmo atto che il lungomare
sarebbe diventato quello che oggi è e che fa vergognare tutti noi, specialmente
dopo il tramonto. Nessun imprenditore ha mai costruito senza autorizzazioni
legittime e legali ma ad un magistrato non costa troppa fatica trovare la
pagliuzza nell’occhio ed imbastire un processo come questo che si è concluso
dopo quindici anni con la condanna del Governo italiano a risarcire i danni
agli imprenditori Matarrese ed altri. Come sempre pantalone pagherà, quello che
non condividiamo è che ancora una volta i magistrati che hanno sbagliato non
pagano; questa sarebbe la Legge uguale per tutti? Assolti e confiscati, per
capire e meditare!
«Mi chiamo Matarrese, Michele
Matarrese». Per quanto poco originale, l'inizio è indubbiamente a effetto. Ma
la colonna sonora non è quella di James Bond, bensì il crepitare sordo del
cemento che implode, sgretolando i palazzi di Punta Perotti e il sogno
imprenditoriale della più nota famiglia di costruttori pugliesi, scrive
Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una storia tutta
barese, perché Bari è la città in cui l'urbanistica fa e disfa fortune,
costruisce carriere e crea (falsi) miti nel triangolo tra imprenditori,
politica e magistratura. «Assolti e confiscati» è il libro che Michele
Matarrese - «una vita dedicata a creare e realizzare, nel segno della serietà e
per decenni, strade, ponti, ferrovie, stadi, strutture pubbliche e via
dicendo», come si perita di evidenziare nella prefazione - manda in libreria
per i tipi del Sole-24 Ore al prezzo (indubbiamente confindustriale) di 28
euro. È la storia, naturalmente dal punto di vista dei Matarrese, dei vent'anni
trascorsi tra il primo via libera al complesso di Punta Perotti e la decisione
con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sancito che lo Stato italiano
non avrebbe dovuto appropriarsi dei terreni su cui sorgevano i palazzoni
abusivi. Un pasticcio all'italiana in cui Matarrese - lo ripetiamo, dal suo
punto di vista - ha qualche briciolo di ragione: un costruttore progetta,
investe, chiede un permesso, lo ottiene, inizia a costruire salvo poi subire un
sequestro, ottenere un’assoluzione, poi un secondo sequestro e alla fine l'onta
della demolizione pur senza aver riportato alcuna condanna. E dopo tre lustri,
a Bruxelles, c'è un giudice che ordina allo Stato di risarcire. Anche per
questo il sottotitolo del libro, che sarà presentato a Bari presso il Parco dei
Principi (luogo che non può non far venire in mente la vicenda similissima di
Lama Balice, con Vito Vasile e il suo «Imputato inconsapevole») è «una storia
di straordinaria ingiustizia». Una storia infinita impastata di tribunali e di
sofferenze - siamo, diciamolo ancora, dal punto di vista del costruttore -, ma
anche di qualche passaggio divertente (una perizia giustificò il pregio
ambientale dell'area di Punta Perotti con la presenza in loco di «merli, torni,
pettirossi, passere scopaiole, capinere, silvie, occhicotti, magnanine,
sterpazzole, cuculi (…) e altre specie di fosso che si uniscono alle stanziali»:
prima dei palazzi lì c'erano prostitute e sfasciacarrozze) e di molti
particolari inediti, tipo l’esposto inviato al Csm contro i magistrati baresi o
anche la lunga lettera al giudice Maria Mitola che per prima aveva disposto il
sequestro. Rimasti, l’uno e l’altra, senza risposta. Il libro, la cui tesi è
che in molti - a partire dal sindaco di Bari, Michele Emiliano - hanno
costruito una carriera sulla demolizione dei palazzi, è costruito su documenti
e ritagli di giornale.
Sono 364 le pagine che separano
la costruzione dei palazzi di “Punta Perotti” dalla sentenza con cui la Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) condanna l’Italia a un risarcimento danni
milionario, in favore delle imprese costruttrici, scrive Corato Live. In
"Assolti e Confiscati”, il noto costruttore barese Michele Matarrese
ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari,
inevitabili implicazioni politiche e giuridiche. Le 364 pagine di “Assolti e
Confiscati”, volume a firma di Michele Matarrese, con cui il noto costruttore
barese ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi
giudiziari, inevitabili implicazioni politiche e spinose questioni giuridiche.
Insomma, quella cortina di nebbia che ha avvolto i palazzi eretti a sud di Bari
nel ’95 e abbattuti nel 2006, meglio noti come “saracinesca” o “eco-mostro”. Il
testo, uscito nello scorso maggio per i tipi de “Il Sole 24 Ore”, è stato
presentato nel pomeriggio di martedì scorso presso il Corato Executive Center,
in un meeting organizzato dal Rotary di Corato, Bisceglie e Molfetta, con
l’Associazione Imprenditori Coratini. Per l’occasione Matarrese – accompagnato
da Marco, uno dei figli, e dal cognato, l’ex senatore Mario Greco, già
governatore del distretto Rotary 2120 – ha tracciato la “sua” ricostruzione
della storia di “Punta Perotti”, fra chiaroscuri e “perché” irrisolti. Una
storia che è anche un pezzo importante della storia di Bari e dell’Italia.
Famosa o famigerata, a seconda dei punti di vista. Punto nodale del libro la
confisca di fabbricati e suoli disposta dalla Cassazione, nonostante il
processo penale si sia concluso con l’assoluzione di tutti i soggetti coinvolti
dalle accuse di abuso edilizio, assolti perché “il fatto non costituisce
reato”. Per la Cassazione, infatti, gli imputati sono incorsi in un errore
scusabile nell’applicazione della legge, ciononostante fu disposta la confisca
che, per la CEDU, non sarebbe dovuta seguire all’assoluzione, perché
«arbitraria e senza alcuna base legale». Risultato: violazione del dettato
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in due punti, quello che
tutela la proprietà privata e quello per cui nessuna pena può essere irrogata
senza una legge che, previamente, preveda il fatto come reato. E la conseguente
condanna dell’Italia al risarcimento di 49 mln di euro. «Quello che è
accaduto non doveva accadere nella nostra Italia, perché è stato un danno alla
collettività in senso ampio, qualunque siano le valutazioni di ciascuno di
noi», così il presidente dei rotariani coratini, Michelangelo De
Benedittis, nel suo indirizzo di saluto. A rappresentare i Rotary Club
che hanno patrocinato l'iniziativa, oltre al'avvocato De Benedittis, c'erano i
suoi omologhi, molti soci e Michele Loizzo, delegato dell'attuale governatore
distrettuale. Dopo la rituale introduzione rotariana, a stretto giro il
presidente dell’AIC, Franco Squeo, ha stigmatizzato le lungaggini di quella
vicenda, gli innumerevoli organismi e autorità coinvolte, le norme poco chiare
e la scarsa certezza del diritto. «Chi è il colpevole?», si è chiesto
Squeo. Di odissea ha parlato l’autore del libro, «anche se non vorrei essere
un altro Omero», che nel lungo intervento non ha elemosinato strali a
chicchessia, dai magistrati ai politici di ogni dove e colore. «Per scrivere
ho atteso l’esito del ricorso alla Corte di Strasburgo e nel libro ho scritto
molti perché, a cominciare dal perché il Perotti è stato abbattuto se c’era un
ricorso a Strasburgo? Ad alcuni perché ho trovato risposta, per gli altri ci
vuole la volontà politica e giudiziaria di voler andare in fondo. Finora ho
visto solo la volontà di coprire le malefatte», ha dichiarato Matarrese.
Nel suo j’accuse a tutto tondo, Michele Matarrese non ha risparmiato l’omonimo
sindaco di Bari, Emiliano. A detta dell’ingegnere ci fu una bozza
di transazione, inviata il 25 marzo 2005 al Comune, «che io non volevo
firmare manco pazzo, perché troppo onerosa per l’impresa», bozza di cui
«io sto ancora aspettando la risposta». Matarrese, poi, ha svelato alcuni
retroscena che coinvolgerebbero addirittura il Quirinale. I progettisti del
complesso residenziale abbattuto erano in origine gli architetti Chiaia e
Napolitano, il compianto fratello del Presidente della Repubblica. «In un
incontro al Quirinale – ha riferito il costruttore – come Cavaliere del
Lavoro, dissi al Presidente ‘io sono quello del Perotti’, lui mi strinse il
braccio e disse "mio fratello ha sofferto molto"». Fra i “perché”
in attesa di risposta, in cima all’elenco di Matarrese ce n’è uno che
chiamerebbe in causa l’operato della magistratura. «Noi abbiamo iniziato a
costruire nel gennaio ’95, piano per piano, la prima denuncia arriva
nell’aprile del ’96. Non c’è mai stata una iscrizione nel registro degli
indagati, nonostante le verifiche in Procura del nostro legale, e noi andavamo
avanti tranquilli. Fino al 17 marzo del ‘97 in cui ci fu l’iscrizione nel
registro degli indagati e l’emanazione dell’ordine di sequestro. Se la Procura
era di fronte al cantiere – si è chiesto l’imprenditore – e dalle
finestre avevano la perfetta visione del cantiere, perché ci fanno arrivare al
13° piano, dopo due anni, per sequestrare? Perché?». Nell’elenco bipartisan
è la volta dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (PdL), «che ha
remato contro, quello che ha fatto è spettacolare» ha chiosato Matarrese
fra il serio e il faceto, inanellando poi una serie di dettagli, fra gli
emendamenti presentati da Tremonti e gli incontri con Gianni Letta, allora
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dalla presentazione del suo
“Assolti e Confiscati”, il testo di Michele Matarrese è apparso come una sorta
di diario o reportage sull’annosa vicenda di Punta Perotti, dal punto di vista
dell’imprenditore, naturalmente. Con la pronuncia della Corte di Strasburgo e
il relativo risarcimento danni dovuto dallo Stato alle imprese edili
ricorrenti, tuttavia, potrebbe non essere calato il sipario sulla “saracinesca”
abbattuta. All’orizzonte si affaccia la possibilità – ventilata da Matarrese e
rigettata dall’attuale Sindaco Emiliano in un recente duello a singolar
tenzone, a colpi di conferenze stampa e lettere aperte – che lo Stato possa
rivalersi sul Comune di Bari. In quel caso, la parola "fine" dovrà
attendere ancora.
Altra storia è quella dei
Cavalotti a Palermo, dove per colpire qualcuno basta brandire l’accusa di mafia
e mafiosità. Di loro nessuno ne parla, se non in modo negativo. Bene. Lo faccio
io, Antonio Giangrande. Cerchiamo di fare chiarezza e facciamo parlare le
carte, a scanso di conseguenze reazionarie da parte di chi si sente defraudato della
voce della verità e della giustizia.
Mafia,
assolti a Palermo tre fratelli imprenditori.
I tre fratelli imprenditori,
Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, sono stati assolti nel
pomeriggio del 6 dicembre 2011 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa:
la sentenza è della I sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta da
Salvatore Di Vitale, che ha accolto le tesi dei difensori. I Cavallotti erano
stati arrestati nel 1998, nell’ambito dell’operazione Grande oriente, ed
assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d’appello aveva ribaltato la
decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e quattro
anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con rinvio,
ordinando un nuovo processo. Gli imputati sono di Belmonte Mezzagno (Pa) e sono
titolari della Comest, un’azienda che si è occupata della metanizzazione di una
serie di Comuni siciliani. L’accusa, basata anche sulla lettura dei pizzini del
boss Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, sosteneva che
i Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e
commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Secondo i
giudici, però, sarebbero stati vittime del racket mafioso.
Diventa definitiva l'assoluzione
per tre imprenditori, scrive Riccardo Arena su “Il Giornale di Sicilia” del 14
maggio 2012. Ora
l'assoluzione è irrevocabile: la Procura generale non ha impugnato la sentenza
della Corte d'appello del 6 dicembre 2011, che è così passata in giudicato.
«Assolti perché il fatto non sussiste». È per questo che i fratelli
imprenditori di Belmonte Mezzagno Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti
sono stati definitivamente assolti dall'accusa di concorso in associazione
mafiosa. Per arrivare al verdetto finale ci sono voluti quattro processi e 13
anni: la vicenda giudiziaria era iniziata con l'inchiesta «Grande Oriente» del
1998. A passare in giudicato è stata la decisione della prima sezione della
Corte d'appello. I Cavallotti erano stati assolti già in tribunale nel 2001, ma
poi un'altra sezione della Corte d'appello li aveva condannati a pene comprese
fra 4 anni e 4 anni e 2 mesi. La Cassazione, il 18 dicembre 2004, aveva
annullato con rinvio la sentenza ed era stato celebrato un altro dibattimento,
rallentato anche da una questione risolta dalla Corte costituzionale, che ha
dichiarato illegittime le norme sull'inappellabilità delle assoluzioni di primo
grado. Cinque mesi fa la sentenza finale, nei giorni scorsi il passaggio in
giudicato. Salvatore Vito Cavallotti era difeso dagli avvocati Franco Inzerillo
e Ernesto D'Angelo; Gaetano dagli avvocati Gioacchino Sbacchi e Franco Coppi;
Vincenzo dagli avvocati Francesca Romana De Vita e Marzia Fragalà, subentrata
al padre, Enzo, ucciso nel febbraio dell'anno scorso. Nei confronti dei
Cavallotti rimane però il sequestro dei beni, su cui la sezione misure di
prevenzione del Tribunale, presieduta da Silvana Saguto, si è riservata la
decisione finale: confisca o restituzione. L'assoluzione nel processo penale è
un buon viatico per i «prevenuti», ma i due procedimenti camminano su piani
diversi e hanno presupposti differenti. Dunque I 'applicazione di una misura di
prevenzione non può essere automaticamente esclusa, in virtù dell'assoluzione.
I Cavallotti erano titolari della Comest, un'azienda che aveva vinto una serie
di appalti per realizzare impianti di metanizzazione in moltissimi paesi
dell'Isola. Erano imprenditori vittime di estorsioni o «a disposizione» e
complici? Vicini a Provenzano e per questo favoriti, o costretti a sottostare
alle regole mafiose? Ora l'accoglimento delle tesi della difesa e dunque
l'affermazione della totale estraneità degli imputati a Cosa nostra.
Da quanto si denota, sembra
chiaro che gli stessi magistrati hanno inteso la condotta dei Cavallotti come
quella di vittime di mafia. Eppure, nonostante ciò, è lo Stato a far più male a
loro.
La sezione misure di
prevenzione del tribunale di Palermo il 19 ottobre 2011 ha confiscato il
patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti,
imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende
giudiziarie, perché ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni –
le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli
-, passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro.
I giudici hanno ritenuto i Cavallotti ''socialmente pericolosi'' e hanno
applicato loro anche la misura della sorveglianza speciale di pubblica
sicurezza per due anni. La legge distingue il procedimento di prevenzione
dall'esito del processo penale, quindi la misura personale e patrimoniale può
essere applicata in presenza di indizi di pericolosità sociale anche se il
soggetto è stato assolto.
A chi credere? Angeli o
demoni? E poi perché due valutazioni diverse e contrastanti?
La sezione misure di
prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato il patrimonio dei fratelli
Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, imprenditori di Belmonte
Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende giudiziarie, perchè
ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni - le aziende Comest e Imet,
diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli - passati ora al
patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno
ritenuto i Cavallotti “socialmente pericolosi” e hanno applicato loro anche la
misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge
distingue il procedimento di prevenzione dall'esito del processo penale, quindi
la misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi
di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto. I
Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell'ambito dell'operazione Grande
oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d'appello aveva
ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro
anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza
con rinvio, ordinando un nuovo processo. Quindi sono stati assolti nel dicembre
2010 dall'accusa di concorso in associazione mafiosa. L'accusa contro di loro
era basata anche sulla lettura dei 'pizzini' del boss Bernardo Provenzano,
consegnati dal confidente Luigi Ilardo, e sosteneva che i Cavallotti fossero
stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e commesse grazie al
loro essere titolari di un'impresa di mafia. Il giudice che li scagionò in
primo grado invece accolse la tesi difensiva secondo la quale i tre fratelli
sarebbero stati citati nei pizzini di Provenzano perchè vittime del racket.
Mentre nella seconda assoluzione in appello si sostenne che nei biglietti di
Provenzano si parlava genericamente dei Cavallotti e non era stato possibile
accertare le responsabilità individuali.
«Sono soggetti di
pericolosità sociale, inseriti nell'ambito dell'imprenditoria colluso-mafiosa»,
scrive “La Repubblica” palesemente giustizialista e faziosa. Il tribunale,
sezione misure di prevenzione, dispone la confisca di beni per 20 milioni e
l'obbligo di soggiorno per due anni nel comune di residenza per i fratelli
Salvatore Vito, Vincenzo e Gaetano Cavallotti, i re del metano di Belmonte
Mezzagno. La confisca riguarda le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni,
la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di
terreni sparsi in Sicilia.I fratelli di Belmonte sono passati indenni
attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l'arresto
nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d'Appello,
decidendo su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel
2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime
di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare la "messa a
posto". Dopo l'arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di
mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss
del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato
l'aggiudicazione dei lavori e l'apertura di cantieri in territori controllati
da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di
Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss
si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito
Cavallotti, dall'86 al '91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e
aveva fatto regolarmente parte dell'accordo provincia pagando direttamente,
aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie» Si evince da quest’articolo
che la piega data è fuorviante.
Di taglio diverso, invece è
quest’altro articolo. Giusto per dimostrare come si può influenzare il giudizio
del lettore. Confiscati i beni dei Cavallotti, "Le loro aziende erano al
servizio di Cosa nostra", scrive “La Gazzetta di Sicilia” il 19 ottobre
2011. Nonostante l'assoluzione dei tre "prevenuti" nel processo
penale, il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo
Cavallotti è stato confiscato dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale
di Palermo. Si tratta di imprenditori di Belmonte Mezzagno, paese a pochi
chilometri dal capoluogo dell'Isola: furono assistiti, all'inizio della loro
vicenda penale, da un loro concittadino, l'avvocato Saverio Romano, attuale
ministro delle Politiche agricole. Passano così allo Stato beni per circa 20
milioni: i giudici hanno ritenuto i Cavallotti e le loro aziende, la Comest in
particolare, al servizio di Cosa nostra e del boss Bernardo Provenzano. La
misura di prevenzione è stata applicata nonostante l'assoluzione, perché il
procedimento ha presupposti diversi, in particolare la "pericolosità
sociale": e per questo motivo ai Cavallotti è stata imposta anche la
sorveglianza speciale per due anni. I Cavallotti furono coinvolti, nel 1998,
nell'operazione Grande Oriente, contro i fiancheggiatori dell'allora latitante
Provenzano: fu in questo ambito che venne fuori - secondo le dichiarazioni del
colonnello Michele Riccio - che Provenzano si sarebbe potuto catturare già nel
1995; la circostanza è oggi oggetto del processo Mori. Gli elementi contro i
tre fratelli furono individuati grazie ai pizzini di Provenzano, consegnati a
Riccio dal confidente Luigi Ilardo, l'uomo che aveva dato indicazioni sulla
presenza del superlatitante a un summit tenuto a Mezzojuso (Palermo) il 31
ottobre di sedici anni fa. Ma il blitz che sarebbe stato sollecitato da Riccio
non venne organizzato dal Ros del generale Mario Mori e del colonnello Mauro
Obinu, oggi entrambi imputati, per questo motivo, di favoreggiamento aggravato.
I Cavallotti in primo grado furono assolti; la Corte d'appello invece li
condannò, con l'accusa di concorso in associazione mafiosa, e la Cassazione
annullò tutto, ordinando un quarto processo, concluso l'anno scorso con
l'assoluzione, non più impugnata dalla Procura generale di Palermo e dunque
divenuta definitiva. La Comest, come la Gas di cui era socio occulto Vito
Ciancimino, si occupò negli anni '80 e '90 della metanizzazione di molti Comuni
siciliani. Da imputati i Cavallotti si sono sempre difesi sostenendo di essere
vittime del racket. Ora sono divenuti "prevenuti" e contro di loro
potrebbe giocare il fatto che, al di là dell'incertezza degli elementi
probatori sulla loro responsabilità, l'ultima sentenza assolutoria ha tenuto
conto del fatto che non era possibile individuare con certezza a quale dei
Cavallotti si riferissero i pentiti. Il collaboratore di giustizia Francesco
Campanella, in particolare, aveva fatto confusione e, nel corso di una
"ricognizione personale" fatta nel corso di un'udienza, in videoconferenza,
aveva indicato come personaggio in rapporti con i boss, sbagliandone il nome di
battesimo, un quarto fratello Cavallotti, in realtà non coinvolto nel processo.
Ma non finisce qui: assolti e
confiscati? No, la storia continua. La seconda parte parla ancora di arresti,
sequestri e confische. Per tutta la stampa avevano costituito una ditta
fantasma per occultare 14 milioni di beni e sottrarli alla confisca e
soprattutto rimanere in attività. Con queste accuse i tre fratelli Cavallotti,
i re del metano di Belmonte Mezzagno, sono stati arrestati per la seconda
volta. Considerati vicino al boss Bernardo Provenzano erano stati processati e
assolti su rinvio della Cassazione. Avevano però subito la confisca
dell'azienda e del patrimonio.
Nuovo arresto per i re del
metano ditta ombra per sfuggire alle confische, scrive faziosamente “La
Repubblica” il 25 febbraio 2012. Finiscono agli arresti domiciliari i tre
fratelli Vincenzo, Gaetano e Giovanni Cavallotti, i re del metano di Belmonte
Mezzagno. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria della Finanza li hanno
raggiunti ieri nelle loro case per notificargli l'ordinanza emessa dal gip del
tribunale di Termini Imerese. Un provvedimento, quello contro i tre fratelli
ritenuti in passato anche vicini al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano,
che ha disposto anche un maxi sequestro di beni. I sigilli sono stati messi
alla società "Enoimpianti plus" di Milazzo, che si occupa della
realizzazione di impianti di metanizzazione, ma anche a un complesso aziendale.
L' accusa è di trasferimento fraudolento di valori per 14 milioni di euro.
Vincenzo, Gaetano, Giovanni Cavallotti, di 56, 53 e 47 anni, già nello scorso
ottobre avevano subito una pesante confisca. Il tribunale, sezione misure di
prevenzione, aveva disposto la confisca di beni per 20 milioni e l' obbligo di
soggiorno per due anni nel comune di residenza peri fratelli. «Sono soggetti di
pericolosità sociale, inseriti nell' ambito dell' imprenditoria
colluso-mafiosa», hanno scritto i magistrati. La confisca colpì le quote di
Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno,
auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia. Le indagini delle
fiamme gialle, adesso, avrebbero accertato che i tre, dopo la misura di
prevenzione e per proseguire la loro attività imprenditoriale negli stessi
settori, hanno provveduto a costituire una nuova società, questa volta nella
provincia di Messina, intestandola fittiziamente a propri familiari ma
gestendola direttamente. Per questo sono stati anche denunciati cinque parenti
dei Cavallotti per concorso nello stesso reato. Si tratta dei due figli di
Vincenzo, dei due figli di Gaetano, e la moglie di Giovanni. Trai beni
sequestrati anche 12 terreni a Milazzo, 16 macchine e 37 autocarri. «Siamo dei
perseguitati dalla giustizia», si sono limitati a dire ai finanzieri i tre
fratelli che sono stati raggiunti a Belmonte e in Campania, dove si trovava
Giovanni. I fratelli di Belmonte erano passati indenni attraverso il processo
Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l' arresto nel 1998, e poi
assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d' Appello, che aveva deciso su
rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva
fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa
nostra per essere stati costretti a pagare la "messa a posto". Dopo
l' arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia
con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di
Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l' aggiudicazione
dei lavori e l' apertura di cantieri in territori controllati da diverse
famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano,
consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si mostrava
interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del collaboratore
di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito Cavallotti,
dall' 86 al ' 91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e aveva fatto
regolarmente parte dell' accordo provincia pagando direttamente, aggiudicandosi
dei lavori e facendo delle cortesie».
Dopo il sequestro, scattano
gli arresti per i fratelli Cavallotti, gli imprenditori palermitani attivi
anche in provincia di Messina, in particolare a Milazzo dove lo scorso 13
gennaio 2012 la Guardia di Finanza ha messo i sigilli alla Euroimpianti, scrive
“Oggi Milazzo” il 24 febbraio 2012. Oggi le fiamme gialle hanno posto sotto
sequestro l'intero patrimonio della famiglia e posto ai domiciliari tre persone
e denunciate altre cinque. Il provvedimento è stato emesso dal gip di Termini
Imerese, su richiesta del sostituto procuratore Francesco Gualtieri. I
Cavallotti sono accusati di trasferimento fraudolento di valori. Le Fiamme
gialle, nel corso dell'operazione, hanno messo i sigilli anche a una società
operante nel settore della realizzazione di impianti di metanizzazione.
Nell'ambito dello stesso provvedimento è scattato il sequestro anche per i beni
già sotto sigilli dal mese scorso. Sotto chiave quindi la Euroimpianti,
con sede a Milazzo specializzata nelle imprese pubbliche per il trasporto di
gas, 12 terreni ricadenti nel comune mamertino, 16 autoveicoli e 37
autocarri. Sottoposta a sequestro patrimoniale anche la Imest, mentre già
nell'ottobre dello scorso anno era stata confiscata la Comest. Si tratta di
sigle attive in tutta la Sicilia, ma anche in Calabria ed Abruzzo, vincitrici
di parecchie commesse pubbliche per la metanizzazione dei comuni. Beni
riconducibili, secondo gli investigatori, ai fratelli Cavallotti di Belmonte
Mezzagno, paese d'origine del politico Saverio Romani. I fratelli
Salvatore Vito, Gaetano e Francesco. Cavallotti sono, secondo gli inquirenti,
legati alla criminalità organizzata facente capo a boss del calibro di Spera e
Provenzano. Arrestati poi prosciolti nell'operazione Grande Oriente del 1998,
nell'ottobre 2011 viene loro confiscato il patrimonio da 20 milioni di euro.
Ora il nuovo sequestro: secondo gli investigatori infatti dopo la confisca
avevano avviato nuove imprese, intestate ai figli, che malgrado il modesto
avviamento commerciale riuscivano ad aggiudicarsi importanti commesse pubbliche
pressoché immediatamente. A Milazzo la Euroimpianti ha partecipato nel
2009 alla gara di ammodernamento della rete del metano, insieme alla Eurovega
dell'orlandino Mangano.
Da notare che a proposito
della mafiosità dei Cavallotti vi è sempre una sentenza definitiva di
assoluzione, mentre gli articoli parlano di atti adottati dai magistrati
inquirenti. Negli articoli, altresì, come sempre sulle notizie di cronaca,
manca la voce della difesa.
Altro esempio di cattiva
pratica giornalistica è l’articolo che segue: Così la mafia sbarca a Novara.
Per loro: puttana per i pubblici ministeri; puttana per tutti….e puttana per
sempre. Fa niente se si parla di gente assolta e, comunque, non ancora
condannata dai magistrati. Ma da qualcuno preventivamente condannata …e come!
Il caso dell'impresa dei
fratelli Cavallotti: vicini a Provenzano, lavoravano in città, scritto da
Alessandro Barbaglia. Articolo tratto da Tribuna Novarese. «E adesso dire che
siamo un’isola felice in cui la mafia non riesce ad arrivare sarà quantomeno
complesso. E già perché la Euro Impianti Plus, la ditta di Milazzo che su
Novara (e in mezza Italia) nel settembre 2011 vinse l’appalto per la
manutenzione degli impianti dell’Italgas da gennaio è stata posta in
amministrazione giudiziaria per sequestro antimafia. Ma dove? A Novara di
Sicilia? No no, a Novara casa nostra. Una cosa non da poco visto che agli
imprenditori titolari della Euro Impianti Plus, i fratelli Gaetano e Vincenzo
Cavallotti (già processati e assolti nel 2010 dall’accusa di concorso in
associazione mafiosa perché ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano), la
sezione di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato complessivamente
un patrimonio da 20 milioni di euro. Un sequestro che ha portato l’intera ditta
ad essere posta in amministrazione giudiziaria, organizzata e gestita, per
conto dello Stato, da uno studio legale di Palermo con clamorosi sviluppi che
hanno avuto risvolti anche su Novara. Ma la Euro Impianti Plus dei fratelli
Cavallotti, che cos’è e come arriva a Novara? Costituita nel 2006 dalle ceneri
di altre ditte finite sotto la lente degli investigatori, la Euro Impianti Plus
arriva a Novara nel settembre 2011 quando, come detto, vince l’appalto di
manutenzione di Italgas. I titolari sono i fratelli Cavallotti: arrestati nel
1998 nell’ambito dell’operazione Grande Oriente con cui venne colpita la cosca
dell’allora latitante Bernardo Provenzano vennero assolti in primo grado,
condannati in secondo per finire rimandati ad altro giudizio terminato con una
seconda assoluzione nel 2010. Un processo strano: i nomi dei fratelli
Cavallotti comparivano oggettivamente sui pizzini di Provenzano; secondo
l’accusa quei pizzini dimostravano che i Cavallotti erano complici di
Provenzano per conto del quale ottenevano commesse e appalti in Sicilia forti
del loro essere titolari di un’impresa di mafia, secondo il giudice però i Cavallotti
venivano citati nei pizzini genericamente, e senza che se ne potessero
accertare responsabilità, al limite solo in quanto vittime di racket. Fatto sta
che nel 2011 i Cavallotti con la Euro Impianti Plus vincono l’appalto a Novara
per la manutenzione Italgas. Il primo lavoro di grande visibilità di cui devono
occuparsi sulla città è l’allaccio all’Inps per installare una caldaia a metano
in viale Manzoni. Un lavoro grosso: bisogna chiudere un pezzo di viale Manzoni
e modificare la viabilità. Non solo, in contemporanea, analoghi interventi,
dovevano essere fatti dalla Euro Impianti Plus in largo Don Minzoni e via
Gnifetti. Ed è allora, a marzo, che si scopre quello che è successo a gennaio
in Sicilia e che solo oggi è palese anche a Novara: la Euro Impianti Plus non
può eseguire i lavori direttamente, li fa fare a una ditta del territorio
autorizzata e controllata dall’amministrazione giudiziaria che ha, di fatto,
rilevato il Cda della ditta siciliana. Dopo i sequestri di gennaio e il
passaggio dei beni allo Stato le opzioni erano due: far saltare la Euro
Impianti Plus e tutti gli appalti vinti o assumere la guida della ditta
ricollocando i lavori a imprenditori “puliti” che operavano già sui territori
per conto della Euro Impianti Plus. Su Novara l’amministrazione
giudiziaria opta per questa ipotesi e così la ditta che affittava i capannoni
come base per le Euro Impianti Plus a San Pietro Mosezzo, Edil Penta’s di
Carmine Penta, viene vagliata e considerata idonea (dopo consegna di tutta la
documentazione necessaria e di certificazioni antimafia) per lavorare come ramo
sano nel novarese. Ecco perché i lavori in viale Manzoni proprio dagli uomini
della ditta di Penta vennero eseguiti. Ed ecco che si scopre come una ditta poi
finita in amministrazione giudiziaria per sequestro di antimafia avesse vinto
appalti per lavorare a Novara. Le indagini delle Fiamme Gialle che hanno
portato al sequestro della Euro Impianti Plus nel gennaio scorso sono partite
dall’ennesimo, sospetto, aumento di capitale (il terzo in poco tempo). L’accusa
per i titolari è stata di trasferimento fraudolento di valori. Da lì è scattato
il sequestro. Resta una considerazione: è questa un’altra dimostrazione di come
la nostra città sappia reagire e scovare le ditte in odore di malavita e sostituirle
con altre sane del territorio? No: a Novara nessuno si è accorto di nulla, né
dello sbarco della ditta dei fratelli Cavallotti né della loro sostituzione
dopo il sequestro antimafia. L’intera operazione è stata gestita da chi,
evidentemente, queste dinamiche le ha viste, le forze dell’ordine siciliane, e
ha sentito una forte puzza. Di gas, ovviamente. Ma a Milazzo cosa dicono? La
Euro Impianti Plus conferma tutta la ricostruzione dei fatti? E’ effettivamente
in amministrazione giudiziaria per ragioni di antimafia? Se si chiamano gli
uffici dell’impresa, dei fratelli Cavallotti si parla senza alcun problema.
“Confermo quello che dice lei: la Euro Impianti Plus è da gennaio in
regime di amministrazione giudiziaria per un sequestro di beni che ha coinvolto
il precedente comitato di amministrazione”. Quello guidato da Vito e Gaetano
Cavallotti? “Esattamente”. Sequestro avvenuto per ragioni di antimafia. “Io sul
tema non posso dire nulla. L’amministrazione giudiziaria ha rinnovato
interamente il Cda di Euro Impianti Plus e il nuovo corso sta lavorando sui
territori tempestivamente e in maniera eccellente”. Sui territori? Perché oltre
a Novara dove opera la “nuova” Euro Impianti plus dell’amministrazione
giudiziaria? “Novara, San Remo, Chiavari, Carrara, Napoli, Caltanissetta ed
Enna”. Tutti appalti vinti dalla “vecchia” Euro Impianti Plus. Insomma, tutti
appalti vinti dai fratelli Cavallotti. “E’ così”. E non è strano? Non è strano
che una ditta che poi finisce sotto sequestro vinca con Italgas appalti di
manutenzione in tutta Italia? “Io non ci vedo nulla di strano, per vincere
quelle gare bisogna rispettare requisiti e consegnare documentazioni che
vengono vagliate attentamente. Evidentemente se quegli appalti sono stati vinti
è perché c’erano i requisiti”. Poi però il sequestro di gennaio cambia questa
prospettiva. “Del sequestro, ripeto, non sono autorizzato a parlare. Posso dire
che l’intervento dell’amministrazione giudiziaria ha permesso di portare avanti
i cantieri in maniera corretta e tempestiva nonostante le vicende giudiziarie”.
Senta, l’appalto di Novara quanto vale? “Non posso dirglielo, non sono notizie
pubbliche”. Cioè, importo, numero e la durata di validità del contratto sono
notizie che non possiamo avere? “Non sono notizie di dominio pubblico. Posso
solo dire che questi contratti durano, solitamente un paio di anni”. E a Novara
sono iniziati a settembre 2011? “Questo lo dice lei. Diciamo che
l’aggiudicazione è sicuramente recente”.»
Detto questo: da Bari abbiamo
iniziato ed a Bari finiamo l’inchiesta. La Corte di Appello di Bari ha revocato
la confisca delle case di proprietà delle figlie di Antonio di Cosola, il boss
barese capo dell’omonimo clan da alcuni mesi sottoposto al regime del 41 bis.
Accogliendo il ricorso proposto dal difensore delle ragazze, l’avvocato
Giuseppe Giulitto, contro la sentenza emessa dal Tribunale di Bari (sezione
misure di prevenzione) nel gennaio 2012, i giudici del secondo grado hanno
ordinato la restituzione dei beni alle figlie del boss, mai state coinvolte in
indagini sulla criminalità organizzata. Si tratta di due appartamenti in via
Regina Margherita a Ceglie del Campo, alla periferia di Bari. La Corte di
Appello ha infatti ritenuto che una delle due figlie, oggi 30enne, "sia
stata sempre estranea al nucleo famigliare di suo padre". Soltanto dopo il
2008, quando è stata confiscata la casa del boss, Antonio Di Cosola con la
moglie e un altro figlio hanno abitato nell’appartamento di proprietà della
giovane. L'altra figlia, di 27 anni, con "reddito lecito e dichiarato da
lavoro dipendente", "nel 2006 si è allontanata dal suo nucleo
famigliare e, dopo essere andata ad abitare con i nonni materni, ha acquistato
da costoro (nel 2007, ndr) l’immobile" mediante un mutuo bancario.
"Non si rilevano – concludono i giudici – indizi sufficienti che possano
far ritenere che i beni oggetto di confisca siano in tutto o in parte frutto di
attività illecite e ne costituiscano il reimpiego». Del resto, osserva la Corte
di Appello richiamando sentenze della Cassazione, "la disciplina delle
misure di prevenzione non ha e non può avere la finalità di sanzionare i terzi,
tantomeno retroattivamente".
Questo a Bari. A Palermo le
colpe dei padri, se di colpe si tratta, ricadono sempre sui figli.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
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