IPOCRITI. IL
GIORNO DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.
Il
Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27
gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell'Olocausto
perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento ne parlano tutti
abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere diverso io parlo degli
altri olocausti.
Bisognerebbe
andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io
non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro. E credo
che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. E di questo
parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del suo cuore è razzista.
Parliamo
delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.
La senatrice
di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si
nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di
una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. «Oggi celebriamo
un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro
popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della
Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono
della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia
– ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un
pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre
10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse
per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di
essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e
dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure
restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi
italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza
distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono
arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori,
pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri
servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro
migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero
crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi
vengono perpetrati in altre parti del mondo. Fu una guerra civile; e il furore
ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della
storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che
hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria
casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con
indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale
avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti
hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre
rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di
identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate.
Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo,
il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei
tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia
sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa
dobbiamo ancora nascondere?»
Un
mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda
Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10
febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei
territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra
storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla
memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della
memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata
dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si
capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente
incomprensibile.
Che
le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui
libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale,
zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in
un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con
cinquant'anni di ritardo.
C’è
un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia
di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie
su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla
stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli
esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i
compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni
è diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la
stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda
comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato
non poco la cultura italiana del secondo Novecento.
E
quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di cui
ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne
parla?
Ma è stato sempre così. Le future
generazioni non devono dimenticare. Tutti noi non dobbiamo dimenticare. PER NON DIMENTICARE:
L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.
La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”, scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II
dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di
buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi
con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati
per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone. Ed in effetti
all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come
un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico,
precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere
segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non
ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti. Bastarono poche
settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che
Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re
con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista
del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti
dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero
davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi. Per la retorica
risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal
medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più
un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due
Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte
compreso. E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare
le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri
falsificati dalla retorica risorgimentale.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.
I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano
passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era
talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far
promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali,
autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice
penale di guerra. Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del
deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni
meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme
lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa
della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono,
misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti
innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare
definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re
Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e
siciliane. Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha
accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano. Altro che
“fratelli d’Italia”… Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente
sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito
dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco
cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la
repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica,
dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo
si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le
persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e
briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di
più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte
marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto
di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la
punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i
villaggi“. Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare. Vediamo allora cosa
invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge Pica: “La
legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore,
il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra
storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno.
Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più
volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore
fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al
brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di
qualunque fenomeno di resistenza.
Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo
seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello
stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con
lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità
militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali
venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere
ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi
dall’esercito, senza formalità di alcun genere. Nella seduta parlamentare del
29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare
che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in
quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere.
Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi
in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza
quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue,
non so più come esprimermi». Per contro, coloro che riuscivano ad evitare
il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari
e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni
apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più
l’applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque,
sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati
dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”,
sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli
militari.
Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui
titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle
Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato
unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre
il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di
ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della
nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la
prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti,
come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che
caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio
attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il
mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza
partigiana antiunitaria e legittimista.
Le disposizioni normative. In applicazione della legge
Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come
“infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863)
i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di
brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato
come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato
trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà
di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano
stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene
comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla
fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita,
concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata
all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere
puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo
circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in
cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che
prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere,
invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo
circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse
unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche.
Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero
presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il
reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna
al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i
sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di
reclusione. Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli
inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale,
il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che
avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti
individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in
caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di
per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto:
in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza
fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva
effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica
anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge
stessa. Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche
alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio
legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare,
l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva
militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e,
persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e
paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano
misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di
rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di
“responsabilità collettiva”.
Contesto sociale e politico. Già durante la fase di
discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare
adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi,
infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà
politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore
Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente
alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle
insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia,
propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche
al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il
parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In
generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo
“contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila
unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni
successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila. Dunque,
nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente
denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi
contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede
adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti,
assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito,
nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il brigantaggio è un gran male,
ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai
briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità
dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e
imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti;
e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la
libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti». La legge
Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e
campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per effetto della legge
1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre
1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i
condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati
a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione
ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i
risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il
brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi
fino al 1870.
CONCLUSIONE.
“L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele
venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge
Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il
governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto,
ancora più acre e feroce di quanto non
fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre
1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e,
dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una
violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva
distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione
dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge
passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col
ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865,
furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le
condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per
periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano
piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“. (Ludovico Greco,”Piemontisi,
Briganti e Maccaroni” – Guida Editore, Napoli, 1975).
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
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