LE COMPATIBILITA’
ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN C…
QUANDO IL DNA
GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione
si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta
svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio
Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che
non si osa dire”.
Marito giudice e
moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25
gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato
notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova
e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un
sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un
procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il
medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi,
improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti
domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati
degni di una spy story.
Ebbene,
devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per
una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali
non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di
difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi
toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché
l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a
differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere
cinematografico.
Ben
più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della
incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o
affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata
dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i
rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne
discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono
previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e
il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di
cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché,
pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno
lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la
materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede
solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei
tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in
primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di
procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più
condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la
norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca
dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non
erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure
l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’,
vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del
ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel
campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le
soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex
novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva
che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a
un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale
rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per
l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa
tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema,
una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato
fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza
creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno
per le incompatibilità proprie.
Della
questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben
sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la
situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità
pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato.
Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm
12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della
modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal
novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come
una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove
sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della
funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio
di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone,
immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel
frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota
frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam
partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente
indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente
della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei
Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una
valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle
toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione
istituzionale complessa”.
Insomma,
può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la
parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E
ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba
affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social
network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la
condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli
frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di
pubblicità verrebbe da dire.
Quel
che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è
che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe
in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a
settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare
l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale,
che fa acqua da tutte le parti.
Al
fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati
sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono
geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo
l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato
perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è
anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad
essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte
lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo
ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere
limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando
di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non
vale per gli stessi magistrati.
Uccise il
figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese,
scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”.
Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne
muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un
colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella
loro abitazione di via Statale Oreto. Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio
del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto,
Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte
d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal
giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene
il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la
conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche
ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado
dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.
Cosa
c’è di strano direte voi.
E
già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti
avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?
Leggo
dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera,
gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel
2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise
d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado
minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado
statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata
in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza
(oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono
marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una
incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al
solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da
intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato
in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno
d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una
figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di
Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento
Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto
Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A
Voi..., il giudizio.”
Si
rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr
Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un
post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta
la verifica delle fonti.
Sarebbe
interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti
giudiziari italiani.
Art.
19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità
di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o
agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o
di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far
parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio
giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede
è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per
quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o
di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai
fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica
sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e
delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati
operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o
di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza,
non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei
tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici
giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di
incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti
organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile
e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla
base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili,
se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità
entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al
medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed
i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della
Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un
magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della
Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i
minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso
ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in
primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La
ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri
di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della
legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente
che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei
fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a
decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità.
A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a
giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato
all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta,
dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del
concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del
presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è
Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono
è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di
tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico
messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di
magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano
che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello
del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno
vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri
concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto
amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i
concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre
Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun
problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come
ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le
intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per
competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati
messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per
fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che,
come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una
bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è
stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad
altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di
concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa,
maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni
fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una
altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta
Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di
«mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni
di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa
appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che
conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta,
avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi
truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di
non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta
Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio
documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al
ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi
parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda
sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre
2008 pagina 20, sezione: cronaca).
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in
magistratura.
Roma,
bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni
intime. Nel mirino della polizia
oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate
espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato
il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968
domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso
di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse
candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa
cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto
una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha
fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di
nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse
sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per
la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che
potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle
perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un
post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi
denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la
candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e
iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì
non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che
durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco
– continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce
dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non
del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento)
per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno
tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno.
Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di
tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali
e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto:
‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per
togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’.
Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero
allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati
si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e
contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto
il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi
pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati
ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco
appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione
personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami».
Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi
frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi
avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due
volte sul luogo del delitto.
Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola
l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato,
primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati
non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi,
classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per
magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali
dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media
(comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”)
e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione
nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu
una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”.
Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore
giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico
Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense
a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00
del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in
Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La
denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno
spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato:
un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.
Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni
di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in
magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014.
Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da
fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la
prima pietra.
Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?
Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo
stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal
maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del
Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione
del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non
viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti
preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di
colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto
mai applicato. Ci si
tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha
denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il
giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata
dalle toghe della Cassazione.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non
è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un
«mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo
l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora
insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria
Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del
processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di
procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di
astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale
di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli,
che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi
confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di
convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave
conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone,
ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano
invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore
giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile
era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano
responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto
delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i
magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
Comunque il presidente del Tribunale di Taranto
Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei
giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e
giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al
processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti,
rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la
diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano
sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al
processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si
evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di
opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non
sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal
trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto
l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un
video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive
delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di
Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si
sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando
il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo
sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.
29
agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le
lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti
non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino,
ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i
protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha
sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina
Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e
indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le
quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri –
aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere
la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di
essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di
lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto
presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue
dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un
dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad
alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati
non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere
dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali
sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti
a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di
Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci
materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice
scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso
impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo
si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva
opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per
l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa
iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il
sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di
indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da
contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova».
Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta
discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah
Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia,
chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse
Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che
partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la
pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il
caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in
sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
12
ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale
della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo
per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a
Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati
Franco Coppi e Nicola Marseglia.
Eppure
la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere
emesse dal Tribunale di Taranto.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione
penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso
Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato
dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia
effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale
rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di
persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -,
sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri
strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del
processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede
necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria …
Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto
vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali
nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo
complesso".
Per
quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di
ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del
ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei
confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile
solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla
iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V
10/01/2007, n. 8429).
In
questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa
della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la
denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire
calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione
per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno
della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la
Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei
processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia
presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo
caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale.
Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Qui
non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a
qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare.
Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.
Questa
norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non
solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del
processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45
c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando
gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non
altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che
partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o
determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta
motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico
ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad
altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".
Tale
istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo,
dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si
differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto
derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus
commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita
per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo
nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre
mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per
decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.
«L’ipotesi
della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede
giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso
principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) -
spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione
nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente
affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto
eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate
restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e
dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa
riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la
ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi
sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è
di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è
estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo
Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero
Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno
giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa.
"Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca
Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica
sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia".
"Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è
naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese".
"Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di
media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo
congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male
operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo
sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e
danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento
per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo
spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul
nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la
notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene
ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due
pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato".
"L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi
accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno
avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente
perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se
Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il
reato per cui è stato condannato".
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono
sempre assolti.
Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano:
archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il
Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel
deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale,
però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere
delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo
il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio,
«dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei
privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla
base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione
sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una
giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia».
Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare
dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità
nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno
precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A
fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna,
che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve,
scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è
successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il
92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni
disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura.
Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia
ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun
colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle
campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i
magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini
evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili
rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi
delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può
essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non
sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel
2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel
2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione
del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i
procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di
giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in
assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle
sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che
tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per
un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E
forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei
procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di
professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel
99,5% dei casi.
A cura
del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger,
youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. 099.9708396
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