Giustizia
carogna.
Errori
giudiziari e controversi indennizzi per l'ingiusta detenzione.
Raffaele
Sollecito e Giuseppe Gulotta. Quando la giustizia è strabica, permalosa e
vendicativa.
Di
Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha
scritto i libri che parlano della malagiustizia e della ingiustizia, in
generale, e del delitto di Perugia, in particolare.
Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il
Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele
Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le
spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce
assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava
una delle peggiori ingiustizie italiane.
Raffaele
Sollecito, in seguito alla sua definitiva assoluzione, ha deciso di chiedere
solo l’indennizzo per ingiusta detenzione, scartando l’idea di chiedere anche
il risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati, consigliato
dalla magnanimità ed accondiscendenza dei suoi legali verso i magistrati di Perugia.
"Nelle
prossime settimane valuteremo eventuali istanze relative all'ingiusta
detenzione". Lo ha detto uno dei legali di Raffaele Sollecito all’Agi il
30 marzo 2015, Giulia Bongiorno, spiegando che eventuali azioni di
"risarcimento e responsabilità civile non saranno alimentati da sentimenti
di vendetta che non sono presenti nell'animo di Sollecito". Quanto alla
responsabilità civile dei magistrati inquirenti, "quello della
responsabilità civile dei magistrati è un istituto serio che non va esercitato
con spirito di vendetta – ha aggiunto il legale - e allo stato non ci sono
iniziative di questo genere".
Ciononostante
la bontà d’animo di Raffaele Sollecito viene presa a pesci in faccia.
Raffaele
Sollecito non deve essere risarcito per i quasi quattro anni di ingiusta
detenzione subiti dopo essere stato coinvolto nell’indagine l’omicidio di
Meredith Kercher, delitto per il quale è stato definitivamente assolto insieme
ad Amanda Knox. A stabilirlo è stata la Corte d’appello di Firenze l’11
febbraio 2017 che ha respinto la richiesta di indennizzo ritenendo che il
giovane abbia «concorso a causarla» rendendo «in particolare nelle fasi
iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura
francamente menzognere». Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e poi
assolto per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, aveva chiesto 516mila
euro di indennizzo per i 4 anni dietro le sbarre.
Alla
richiesta di risarcimento si erano opposti la procura generale di Firenze e il
ministero delle Finanze. Nella richiesta di risarcimento i legali di Sollecito
avevano richiamato la motivazione della sentenza della Cassazione nelle pagine
in cui venivano criticate le indagini secondo la Suprema Corte mal condotte
dagli inquirenti e dalla procura di Perugia. In primo grado, nel 2009, Raffaele
Sollecito e l’americana Amanda Knox erano stati condannati dalla Corte d’Assise
di Perugia a 25 anni e 26 anni di carcere per omicidio. Nel 2011 vennero poi
assolti e scarcerati dalla Corte d’Assise d’appello dal reato di omicidio (alla
Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia). Nel 2013 la Corte di
Cassazione annullò poi l’assoluzione e rinviò gli atti alla Corte d’Assise
d’Appello di Firenze che condannò (2014) Sollecito a 25 anni e Knox a 28 anni e
6 mesi. Infine, il 27 marzo 2015, il verdetto assolutorio della Cassazione.
Prima
dei commenti ci sono i numeri. Sconcertanti, scrive Alessandro Fulloni il 31 12
2016 su "Il Corriere della Sera”. Il dato complessivo lascia senza parole.
Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta
a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per
ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma
i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e
contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone
sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore
giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari
condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene
identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per
cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci:
custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al
Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti
«automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta
inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il
Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per
ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari.
Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di
euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in
linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della
Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se
l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui
sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene
rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si
concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di
indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo:
80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e
Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi.
Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore
subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a
rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso.
E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro,
nella necessità di tirare a campare con la pensione.
Carceri
"Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di
innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia
di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato
da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e
dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su
"La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di
persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al
carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non
solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse -
ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un
breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una
ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto
spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano
risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti,
anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula
piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2
milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013.
Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini
ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel
2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146
casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non
diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane,
analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che
sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati
dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella
stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono
in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on
line, che dà conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero
dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di
indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso
Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la
strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che
costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il
19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di
carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13
febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro
grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2
mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di
Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva
assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a
confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi
paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di
quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi
goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire
"un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena.
Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano
"risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la
carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del
cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio
della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente?
Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è
innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure
la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro
d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
Ma
veniamo al caso "Sollecito".
I
rischi della difesa, scrive Ugo Ruffolo il 12 febbraio 2017
su"Quotidiano.net". La decisione sembra salomonica: Sollecito,
assolto per il rotto della cuffia, viene liberato ma non risarcito per la
ingiusta pregressa detenzione. Quattro anni, per i quali chiede 500.000 euro.
Sollecito dovrebbe ringraziare il cielo di essere libero e non forzare la mano,
per non fare impazzire i colpevolisti. Ma Salomone non abita nei codici. I
quali sarebbero un sistema binario. O tutto, o niente. Se sei assolto, non
importa come, la ingiusta detenzione ti deve essere risarcita. C’è però
l’articolo 314 del c.p.c., il quale prevede una sorta di concorso di colpa del
danneggiato, che neutralizzerebbe la sua pretesa al risarcimento. Come dire: se
sei assolto, ma per difenderti hai mentito o ti sei contraddetto, allora sei tu
ad aver depistato polizia e giudici, o ad aver complicato il loro lavoro. Se ti
hanno prima condannato e poi assolto, e dunque se hai fatto quattro anni di
carcere ingiustamente, la colpa è anche tua; e questo ti impedirebbe di
chiedere il risarcimento (come dire: un po’ te la sei voluta). Sembrerebbe
giusto, almeno in linea di principio. Ma sorge il problema che, assolto in
penale l’imputato, in sede civile viene processata la sua linea difensiva, ai
fini di accordargli o meno risarcimento da ingiusta detenzione. In altri
termini ciascuno è libero di difendersi come crede, anche depistando o mentendo
(potrebbe essere talora funzionale alla difesa nel caso concreto). Ma chi
sceglie questa linea si espone al rischio di vedersi poi rifiutato il
risarcimento. È quanto obbietta a Sollecito l’ordinanza della Corte d’Appello,
ricostruendo quella storia processuale come costellata di depistaggi,
imprecisioni, contraddizioni e menzogne. Che talora Sollecito aveva ammesso,
giustificandosi con l’essere stato, al tempo, “confuso”. I suoi avvocati
annunciano ricorso in Cassazione, per contestare come erronea quella
ricostruzione processuale. Dovrebbero avere, credo, scarsa possibilità di
vittoria. Salomone, così, rientrerebbe dalla finestra ed i colpevolisti
eviterebbero di impazzire. Ma quel che turba, è un processo che si riavvolta su
se stesso, cannibalizzandosi: processo del processo del processo (e anche,
processo nel processo nel processo). Come riflesso fra due specchi
all’infinito.
Sollecito,
no ai risarcimenti. Non è abbastanza innocente. La Corte d'appello di Firenze
nega 500mila euro per 4 anni di cella: «Troppi silenzi e menzogne», scrive
Annalisa Chirico, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Per la
giustizia italiana puoi essere innocente e, a un tempo, colpevole. La Corte
d'appello di Firenze ha rigettato la richiesta di risarcimento per ingiusta
detenzione avanzata da Raffaele Sollecito. Il dispositivo, pubblicato dal sito
web finoaprovacontraria.it, s'inserisce nel solco della cosiddetta
giurisprudenza sul concorso di colpa. In sostanza, il cittadino che, ancorché
assolto, abbia contribuito con dolo o colpa grave a indurre in errore
inquirenti e magistrati, vede ridimensionato il proprio diritto a ottenere un
risarcimento per la detenzione ingiustamente inflitta. Nel caso di Sollecito,
quattro anni di carcere e un'assoluzione definitiva, questo diritto si annulla,
si polverizza, nessun risarcimento, non un euro, niente. Per i giudici della
terza sezione penale, «le dichiarazioni contraddittorie o false e i successivi
mancati chiarimenti» da parte del giovane laureatosi ingegnere dietro le sbarre
avrebbero contribuito all'applicazione e al mantenimento della misura
cautelare. Ma quali sarebbero le dichiarazioni «menzognere»? «Io non mi sono
mai sottratto agli interrogatori - commenta al Giornale il protagonista, suo
malgrado, dell'ennesimo colpo di scena in un'odissea giudiziaria durata quasi
dieci anni Ho letto la decisione, sono sbigottito. Avverto l'eco della sentenza
di condanna, forse sono affezionati agli errori giudiziari». Sollecito è
scosso, non se l'aspettava. «Credevo di aver vissuto le pagine più nere della
giustizia italiana. Devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe
giustificata». Nelle ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith
Kercher, la studentessa inglese barbaramente uccisa nell'appartamento di via
della Pergola nel 2007, Sollecito risponde alle domande di chi indaga, cerca di
ricostruire nel dettaglio gli spostamenti suoi e di Amanda, la ragazza
americana che frequenta da una settimana, prova a fissare gli orari di ingresso
e uscita dal suo appartamento perugino, se Amanda si sia mai assentata nel
corso della notte, se il padre gli abbia telefonato dalla Puglia verso l'ora di
cena o prima di andare a dormire, Raffaele non si sottrae ma fatica a ricordare
con esattezza, si contraddice, giustifica l'imprecisione ammettendo di aver
fumato qualche canna come fanno gli universitari di mezzo mondo, nel corso
dell'interrogatorio di garanzia dinanzi al gip dichiara: «Ho detto delle
cazzate perché io ero agitato, ero spaventato e avevo paura. Posso dire che io
non ricordo esattamente quando Amanda è uscita, se è uscita non ricordo». Ma
c'è di più. Nell'ordinanza di 12 pagine, si legge che il silenzio mantenuto
dall'indagato dopo l'interrogatorio di garanzia Sollecito fu tenuto per sei
mesi in isolamento avrebbe contribuito a indurre in errore i giudici. In altre
parole, l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una
valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di un'innocenza a
metà: Sollecito è ancora sotto processo. Per spazzare via ogni dubbio, si
afferma che la stessa sentenza di assoluzione emessa dalla Cassazione avrebbe
rinvenuto «un elemento di forte sospetto a carico del Sollecito» a causa delle
dichiarazioni contraddittorie. Non vi è traccia invece delle censure espresse dai
supremi giudici sull'operato dei pm: «clamorose défaillance o amnesie
investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine», scrivono gli
ermellini. Per l'omicidio della Kercher un cittadino ivoriano sconta una
condanna definitiva a sedici anni di carcere. Ormai la cultura del sospetto ha
inghiottito quella del diritto, è la stessa che fa dire candidamente al
presidente dell'Anm Davigo che pure gli innocenti sono colpevoli.
Innocenti
di serie B, scrive Claudio Romiti il 14 febbraio 2017 su “L’Opinione. Destando
un certo scalpore, soprattutto tra quei cittadini avvertiti che credono in una
visione garantista della giustizia, la Corte d’Appello di Firenze ha negato
qualunque risarcimento a Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione. Quattro
interminabili anni passati dietro le sbarre che, per una persona vittima di una
ricostruzione dei fatti a dir poco surreale, devono essere sembrati un inferno.
Così come un inferno, che in alcuni aspetti continua a sussistere per il
giovane ingegnere informatico pugliese, è stato il lunghissimo iter
processuale, fortemente inquinato da un forte pregiudizio mediatico che ancora
oggi fa sentire i suoi effetti presso una parte dell’opinione pubblica disposta
a bersi qualunque pozione colpevolista. In estrema sintesi i giudici di Firenze
hanno stabilito, bontà loro, che il comportamento iniziale del Sollecito,
considerato eccessivamente ambiguo e, in alcuni casi, menzognero, avrebbe
indotto gli inquirenti perugini in errore, convincendo questi ultimi - aggiungo
io - a mettere in piedi un castello di accuse fondato sul nulla, visto che
nella stanza del delitto non furono ritrovate tracce dei due fidanzatini
dell’epoca, contrariamente alle decine e decine di evidenze schiaccianti a
carico di Rudy Guede. Quest’ultimo, considerato ancora oggi da molti analfabeti
funzionali di questo disgraziato Paese solo un capro espiatorio dell’atroce
delitto di Perugia, vittima dei soliti poteri forti capitanati dalla Cia, fino
a coinvolgere la longa manus di Donald Trump, il quale in passato si era
interessato del caso.
Sta
di fatto che Raffaele Sollecito, pur essendo scampato ad uno dei più clamorosi
errori giudiziari della storia italiana, viene considerato oggi, negandogli
alcun risarcimento, un innocente dimezzato. Un mezzo colpevole che avrebbe
cagionato le sue disgrazie per non aver fornito in modo chiaro le ragioni della
sua innocenza. Tant’è che persino il silenzio mantenuto dall’imputato dopo
l’interrogatorio di garanzia, come sottolinea Annalisa Chirico sul “Il
Giornale”, avrebbe indotto i giudici nell’errore. “In altre parole - commenta
la stessa Chirico - l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito,
frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di una
innocenza a metà”. E se la decisione di avvalersi della facoltà di non
rispondere alle domande degli inquirenti viene valutata in questo modo, ciò
significa che nelle nostre aule giudiziarie ancora aleggia quell’idea molto
medievale dell’inversione della prova. In un evoluto sistema giudiziario, al
contrario, spetta sempre all’accusa dimostrare al di là di ogni ragionevole
dubbio la colpevolezza di qualunque imputato. E se questo non accade, proprio
perché siamo tutti innocenti fino a prova contraria, le conseguenze fisiche,
morali e finanziarie di una accusa caduta nel nulla non possono ricadere sulla
testa di chi l’ha pesantemente subìta. Da questo punto di vista, dopo
l’annuncio del ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato di Sollecito,
Giulia Bongiorno, dobbiamo sempre sperare, al pari del mugnaio di Potsdam, che
ci sia sempre un giudice a Berlino.
Ma
quale è il comportamento contestato a Raffaele Sollecito?
Si
legge il 11 Febbraio 2017 su “Il Tempo”. "Credevo di aver vissuto le
pagine più nere della Giustizia Italiana, ma nonostante la Cassazione mi ha
dichiarato innocente, devo prendere atto che la mia durissima detenzione
sarebbe giustificata. Ripeto, la Cassazione aveva sottolineato l'esistenza di
gravissime omissioni in questo processo e di defaillance investigative".
Così Sollecito - assolto dall'accusa di aver partecipato all'omicidio
di Meredith Kercher - commenta sul suo profilo Facebook. "Riprendono in
toto la sentenza di condanna di Firenze, piena di errori fattuali ingiustificabili
- scrive ancora Sollecito - Adesso questi giudici non tengono minimamente conto
di sentenze in cui è acclarato il clima di violenza durante gli interrogatori.
Non mi sono mai sottratto ad un interrogatorio e dire che non mi hanno
ascoltato è soltanto una scusa, visto che ho fatto mille dichiarazioni
spontanee". Per l'avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, la
decisione della Corte d'appello di Firenze «si caratterizza per una serie
consistente di errori. Basterebbe pensare che esclude il diritto al risarcimento
sulla base delle dichiarazioni che avrebbe reso Sollecito e dimentica che
esistono delle sentenze in cui è stato attestato che addirittura, nell'ambito
della questura, furono fatte pressioni e violenze alla Knox e Sollecito proprio
nel momento in cui rendevano queste dichiarazioni». «Non c'è un solo cenno
sulla situazione in questura - aggiunge il legale - Inoltre, l'ordinanza
dimentica che le dichiarazioni non possono in nessun modo aver inciso
sull'ingiusta detenzione perché non sono state citate come decisive nei
provvedimenti restrittivi in cui si faceva invece riferimento ad altri
elementi. Infine, in sede di dibattimentale, Sollecito non ha reso alcun esame
quindi non si vede come le sue dichiarazioni possano aver causato il diniego di
libertà in quella fase. È una sentenza - conclude il legale - che verrà
immediatamente impugnata in Cassazione».
Insomma,
la Corte di Appello di Firenze, volutamente e corporativamente non ha tenuto
conto del clima di violenza e coercizione psicologica che sollecito ha subito
nelle fasi in cui gli si contesta un atteggiamento omissivo e non
collaborativo.
In
ogni modo. Se a Firenze a Sollecito si contesta un comportamento in cui abbia
«concorso a causarla» (l'illegittima detenzione), rendendo «in particolare
nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura
francamente menzognere», come se non fosse nel suo sacrosanto diritto di difesa
farlo, ancor più motivato, plausibile e condivisibile sarebbe stato il diniego
alla richiesta dell'indennizzo di fronte ad una vera e propria confessione.
Invece
si dimostra che in Italia chi esercita impropriamente un potere, pur essendo
solo un Ordine Giudiziario, ha sempre l'ultima parola per rivalersi da
fallimenti pregressi.
Giuseppe
Gulotta, risarcito con 6,5 milioni di euro dopo 22 anni in carcere da
innocente. Il muratore di Certaldo (Firenze) è stato condannato nel 1976 per
duplice omicidio e assolto nel 2012. La Corte d'appello di Reggio Calabria ha
riconosciuto l'indennizzo. L'avvocato aveva chiesto 56 milioni di euro, scrive
"Il Fatto Quotidiano" il 14 aprile 2016. Sei milioni e mezzo di euro
di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. La corte
d’appello di Reggio Calabria ha stabilito l’indennizzo per Giuseppe
Gulotta, il muratore di Certaldo (Firenze) accusato di aver ucciso due
carabinieri e poi assolto nel 2012. La richiesta di Gulotta,
attraverso il legale Pardo Cellini, ammontava a 56 milioni di
euro. “Stiamo valutando un ricorso in Cassazione”, ha spiegato l’avvocato.
“Se da un lato siamo soddisfatti perché con la decisione dei giudici di Reggio
Calabria finisce questo lungo percorso, dall’altro non ci soddisfa che sia
stato riconosciuto un indennizzo e non un risarcimento”.
“Per trentasei anni sono stato un assassino”, aveva
raccontato in un libro del 2013 lo stesso Gulotta, “dopo che mi hanno
costretto a firmare una confessione con le botte, puntandomi una pistola in
faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico
modo per farli smettere”. Nel 1976, a 18 anni, Gulotta fu
condannato per il duplice omicidio di Carmine Apuzzo e Salvatore
Falcetta, avvenuto nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in
provincia di Trapani.
In
carcere in Toscana da innocente, crea una fondazione per le vittime degli
errori giudiziari. Giuseppe Gulotta fu condannato per l'omicidio di due
carabinieri. Dopo 40 anni ha ricevuto i 6,5 milioni di indennizzo dallo Stato,
scrive Franca Selvatici il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". È
arrivato finalmente l'indennizzo dello Stato per Giuseppe Gulotta e per la sua
vita devastata da un tragico errore giudiziario. In tutto 6 milioni e mezzo di
euro, che dopo anni di carcere, di disperazione e di difficoltà economiche
permetteranno all'ex ergastolano, accusato ingiustamente dell'atroce
esecuzione di due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta,
trucidati il 26 gennaio 1976 nella piccola caserma di Alcamo Marina, di
assicurare un po' di agiatezza alla moglie Michela e ai figli e di aiutare chi,
come lui, è finito in carcere innocente. Giuseppe Gulotta, nato il 7 agosto
1957, aveva poco più di 18 anni quando finì nel "tritacarne di
Stato". Chiamato in causa con altri da un giovane che, dopo essere stato
trovato in possesso di armi, fu torturato, costretto a ingoiare acqua, sale e
olio di ricino e a subire scosse elettriche ai testicoli, anche lui fu
incatenato, circondato da "un branco di lupi", picchiato, insultato,
umiliato e torturato, finché - come ha raccontato nel libro Alkamar scritto con
Nicola Biondo e pubblicato da Chiarelette - "sporco di sangue, lacrime,
bava e pipì" - non ha firmato una confessione che, seppure ritrattata il
giorno successivo, gli ha distrutto la vita. Il 13 febbraio 1976 fu arrestato e
dopo ben nove processi il 19 settembre 1990 fu condannato definitivamente
all'ergastolo. Scarcerato nel 1978 per decorrenza dei termini della custodia
cautelare, era stato allontanato dalla Sicilia. I genitori lo mandarono in
Toscana, a Certaldo, e qui - fra un processo e l'altro - Giuseppe ha conosciuto
Michela, sua moglie, che gli ha dato la forza di resistere nei 15 anni
trascorsi in carcere. Nel 2005 ha ottenuto la semilibertà. Sarebbe comunque
rimasto un "mostro" assassino se nel 2007 un ex carabiniere non
avesse deciso di raccontare le torture a cui aveva assistito. Da allora
Giuseppe - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - ha
intrapreso l'impervio percorso della revisione del processo. Il 13 febbraio
2016 - esattamente 40 anni dopo il suo arresto - è stato riconosciuto innocente
e assolto con formula piena dalla corte di appello di Reggio Calabria. Quattro
anni più tardi, il 12 aprile 2016, dopo altre estenuanti battaglie gli è stato
definitivamente riconosciuto l'indennizzo di 6 milioni e mezzo a titolo di
riparazione dell'errore giudiziario. Anche gli altri tre giovani condannati
come lui sono usciti assolti dal processo di revisione, incluso Giovanni
Mandalà, morto in carcere disperato nel 1998. Per i suoi familiari lo Stato si
appresta a versare un indennizzo record, il più alto mai riconosciuto in
Italia: 6 milioni e 600 mila euro.
Ecco
come la giustizia in Italia sia strabica. A Firenze il silenzio vale il diniego
all’indennizzo; a Reggio Calabria una confessione di colpevolezza vale una elargizione
del medesimo.
A
cura del dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger,
youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. 099.9708396 –
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