DEMOCRAZIA:
LA DITTATURA DELLE MINORANZE.
La coperta
corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi
diffusi.
Di
Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha
scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in
generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.
La dittatura è
una forma autoritaria di governo in cui
il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle
mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o
altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio
al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano
dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli
avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di
predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un
ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In
questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con
il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di
espressione e di stampa.
La
democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con
fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata,
assoggetta da calcoli politici.
Si definisce minoranza un gruppo
sociale che, in una data società, non costituisce una realtà
maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento
a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza
linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di
genere), età, condizione psicofisica.
Minoranza
con potere assoluto è chi eserciti una funzione
pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con
grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste
minoranze sono chiamate "Caste".
Minoranza
con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi
della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente
un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status
(certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di
pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono
chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A
queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative
di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le
battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).
Le
minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a
loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di
espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.
Questo
impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e
nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà
di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La
guerra, però è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le
testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati
al sistema.
Nel romanzo
1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della
gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico
allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto” che
negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale ricorda molto il
pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa in un determinato
frangente storico sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato, e sfruttando la
cassa di risonanza della cultura di massa induce le persone ad aderire ad una
serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà
sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.
Di esempi
della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.
Assemblea
Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e
consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto
Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra
pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio
dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più
importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste
persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il
centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono
sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro
uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con
Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste
mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che
capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con
facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore
possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e
trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo
Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al
congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza.
E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del
Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo
dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti
d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il
lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si
vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di
personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza
Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la
strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano
il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi
uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non
c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il
No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da
presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza
e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente
vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di
partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel
momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il
proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi
subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole
e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per
lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie
personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe
bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma
costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori
Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo:
il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il
vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si
dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La
minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il
risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di
Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola
verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi.
Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’
chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona
assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono
finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.
No, no e 354
volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio
cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni
di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti
industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai
siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio
mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori
pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare
responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi
maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e
comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”.
Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano
il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e
burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le
grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento.
Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare"
secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione
di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV,
NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione
dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul
NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte
dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché
cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è
puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta
in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati
culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi
comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono
verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda
l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo
in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da
compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’
plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad
alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma,
anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza?
Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di
sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione
politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente
protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei
"No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In
Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi
infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni
decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della
piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il
fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My
Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di
interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in
cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano
progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le
contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par
condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a
contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo
qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le
decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti.
L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo
i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori
pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti
delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno
delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no
profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia
ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e
quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio,
conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti
perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il
risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che
i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato
di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza
di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di
burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese
straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti
internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in
Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso
per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi
de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della
mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”,
“portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per
puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto
partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla
nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i
rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati
e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge
collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare
lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia,
dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della
Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una
certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza
offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni
che non sono tali”.
In Italia
stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva
messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge
elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica
04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von
Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia
animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in
Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il
compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico
dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido
solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati
scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani».
Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di
costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale
chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la
proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina
liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e
della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale,
la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la
sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata
contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale
considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa
ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della
proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la
proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria
sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve
abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella
democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene
esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la
linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza
della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al
governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il
meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che
permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e
spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo
solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto
vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella
sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare
che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non
la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È
accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al
potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a
sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a
disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo
profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa
svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I
governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime
dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che
«il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente».
Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli
intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad
Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge,
legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo,
riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare
il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di
servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo
in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non
soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai
disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità
che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle
strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione
che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità
di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la
difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono
attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe
di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di
azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può
guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi,
handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono
condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non
sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto
un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società»
può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni
fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma
ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti,
o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non
soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti,
ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può
rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in
realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza
goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti
scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i
benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più
la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad
insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la
distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è
formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da
una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il
governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta
astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche
scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e
formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E,
senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con
Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la
libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione
finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà
individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in
altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava
Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e
l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta
a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano
onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la
sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono
inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione,
«significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o
un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva
messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni,
in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una
legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza.
Dario Antiseri
Quelli
che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A
sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia
frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto
contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e
distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il
Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella
in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra
società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la
concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a
ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato
laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti
pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte
ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e
irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non
generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che
avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di
fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da
bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad
imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità
organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad
altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e
comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui
è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure
vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società
ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei
principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato?
Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero
liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig
Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un
grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una
società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per
avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono
esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita
della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora
Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di
interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio
simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è
la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali.
Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici
e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo
meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato
caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La
loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di
regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter
Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e
sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività
economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore
dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di
questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che
con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere
economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che
le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in
quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli
«Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia
spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il
sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione
economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi
Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere
pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica
economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i
monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare,
costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di
sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a
livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo
dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno
sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente
attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite.
Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso
stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle
forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa
d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia
sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare».
Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo:
Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e
socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che
Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono
bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla
più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno
letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso
consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena
solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera
concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in
quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza
unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di
sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e
conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così
Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e
Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello
Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e
collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali
compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal
monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle
regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono
funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero
della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti.
Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota
e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il
primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla
legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base
del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo
necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di
partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano
sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta
appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la
concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate
dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo
liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari,
imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista
vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori,
proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i
limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere
dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora:
«Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato
con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo
cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla
forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui
preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive
pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le
sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume
di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede
diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri
"Liberali
di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione
dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola
Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì
12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna
diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del
liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino
in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere
conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad
esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista
quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla
nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta
anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad
esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse
attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»:
la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che
determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in
sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro
grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati,
i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi
soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali
come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno
commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex
fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in
posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una
conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe
scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca
del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte
dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione.
Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due
caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i
liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi
del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o
democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una
mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il
progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono
trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad
affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi,
il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato
hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni
finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il
ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e
il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di
essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme
diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il
problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che
l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe
la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per
le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti,
vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca.
Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero,
per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi
salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il
fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro
pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata
dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle
trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono
tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti
in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così
come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi
Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7
miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google –
praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei
rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato,
e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca
questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli
affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato
(comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare
di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per
l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo
simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a
industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide
per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate
sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se,
contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro
anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari
(praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft
tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste
grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata
vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare
la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così
rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata
acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un
operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire
o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno
cambiato forma.
A
cura del dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger,
youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. 099.9708396 –
328.9163996
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