L’INCHIESTA. USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE?
RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI
ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI.
Alla domanda rispondo come dr.
Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le
Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta
dal Ministero Dell’Interno.
Per dare una risposta un po’ lunghina, ma
estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si
ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a
sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si
perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un
mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di
sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel
sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti
vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il
megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli
di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che
testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e
“Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli
stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi
sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né
fatto ricostruire. Dal
1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di
Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i
miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi
sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n.
147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi
procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è
stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014:
ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Comunque
in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto
a quello che il popolo anela.
Per i loro amici
i soldi li trovano ed il pizzo lo pagano: Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di
dollari»,
scrive “Il Messaggero”. L’Italia finanzia il terrorismo internazionale
a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro
Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per
restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a
finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un
circolo vizioso. Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che,
ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo
internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il
portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano
bene dal confermarlo, è risaputo che
dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a
confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125
milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce
in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi
rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con
un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa
sostengono, infatti, che dal
2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro
per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del
mondo.
Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro
governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in
Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita
nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del
funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono
rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia)
per il quale sembra sia stato pagato un
riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi
si sono guadagnati la fama di “pagatori
di riscatti” elargendo milioni
di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni
come l’Isis pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a
repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei
nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare
in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento
e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare
riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni
Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai
Paesi del G8. D’altra parte se
il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce
perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un
riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).
Ostaggi
italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo
rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria
collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor,
Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio.
Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui
la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo
stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso
poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19
giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito
dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il
funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in
Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele
Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi
italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo.
L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta
nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e
Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di
Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali
nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5
italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono
liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011
nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di
Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli
shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno
Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana.
Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In
Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e
la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello
stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere
Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso
dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano
liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre
anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre
lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio.
Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la
liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per
morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici
italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca
Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.
Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per
circonvenzione d'incapaci,
scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai
magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione
d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco
serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i
minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle
due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui reclutatori
che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li
espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro
“l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo,
mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi
chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili
di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro
non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli
italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine
internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.
Che
si possa trattare anche delle famose onlus antimafia?
E
poi chi sono le istituzioni antimafia che aiutano le vittime?
Corruzione
nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è
chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti
disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza.
Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco
la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E
l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson
su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se
parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare
i 130 dipendenti della Difesa
per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti
disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di
più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili.
Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione
cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati
licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del
Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due
anni Palazzo Chigi ha dovuto
vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali,
una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507
dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
“DENUNCIA IL RACHET. TI
CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
PINO MANIACI. Beni
sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di
Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede
ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di
Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte
con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora
Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore
giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac,
Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a
gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino
Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce
portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione
dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle
misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il
principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a
scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli
incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso
conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i
parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il
potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei
confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona
così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di
prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale.
Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino
dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti
interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi
giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli
ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo
lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa
alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione
regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del
direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.
LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo
Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a
parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la
camorra. Abbiamo
raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo
integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei
confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e
nei confronti di quei cittadini
collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai
l’eroe!” Bene, la
storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha
detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non
trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi
giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si
passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non
diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali
e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in
cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo
se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da
uomini? Questa storia, come
tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in
cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il
racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo
così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo
effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso
questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto
sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi
termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…
Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista
cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia
moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con
l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra
attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale
ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un
grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande
negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti
ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due
proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con
giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno
centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici.
Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre
più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra
resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto
finanziario di una persona, che
credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di
amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro
per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa
persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che
in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio
si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a
minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce
clan camorristico dei Vollaro.
Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e
grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei
onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle
mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione
perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva
avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione
delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie
aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono
pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la
sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni
immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel
suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali
(intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo
equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in
realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale
fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è
tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è
tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi
sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a
farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha
comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono
da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche
hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha
mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra
i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa
in cui abito con la famiglia.
Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro
usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale,
tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati
da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata
alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti
si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita
organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni
giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti.
Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa
i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni
già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2
volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in
due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo
dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità
tra loro, Proc. N° 52969/05 e
11335/10. A giugno del 2010 il
Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura
senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione.
Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci
abbia concesso i benefici previsti
dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per
le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status,
e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il
tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di
solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che
il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a
raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è
cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non
eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è
una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra
denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far
conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai
avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione
della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto
prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove
documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli
estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben
sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal
Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre
u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva
gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo
hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza
per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato
omicidio. In quale modo noi si
possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più
assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata
anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto
produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati
vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e
continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo
subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti
di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti
negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto
con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione
del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti
vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario
gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio
da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio
2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto
d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un
individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le
ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso.
Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi
ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in
giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato
economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci
paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci
fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per
l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i
Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che
non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del
Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini
ha evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a
nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo
in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è
incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni
della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il
suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed
incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario
accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta
nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la
famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi
avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi
a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»
PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi
perché abbandonato dalla scorta in Calabria»,
scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna
raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi
in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per
oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba
lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe
riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho
dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie
a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel
primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con
mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove
sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito,
«mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non
ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto
versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da
quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile
essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a
quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per
36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se
è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora
nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino
accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende
solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa
nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato
sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la
prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è
umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha
infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto:
Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento
ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e
sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza
che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani
sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di
………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia
persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che
avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio.
Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia
persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo
aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di
due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.
COSIMO MAGGIORE. Si barrica nella sua azienda venduta
all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket:
“Vaffanculo Stato”. L’intervista
realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora
anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno
cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore,
l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi
estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa
Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la
maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato. In un paese
dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente
che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il
malaffare. Una volta raccolte le testimonianze poi vengono lasciati al
loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di
testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti.
Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di
loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompicoglioni”
Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De
Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad
molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni
criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un
nostro reportage. Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo
tassello. Lui non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una
vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta perché non
è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del
pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il
pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la
sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di
continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata
si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.
Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio,
scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime
durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008
denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita
di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia,
ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i
collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non
ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta
raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro
destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni
di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una
mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla
finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda
che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta.
Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti,
ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta
perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la
sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha
visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha
pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute
negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia
vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non
denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia
banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la
legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta
dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono
barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto
pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei
figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».
LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il
testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato
dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo
blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi
Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la
sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è
costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001.
Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco
delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle
sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali.
Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro
terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della
gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto
ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”.
Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa.
Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al
Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei
testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie,
purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti
criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi
(le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono
stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati
senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della
consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello
antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi
fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi
economici e nessuno si è curato di noi”.
Coppola, a chi si riferisce?
“Allo Stato”.
Cosa chiede allo Stato?
“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio
grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto
il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto
criminale”.
Ha ricevuto altre minacce?
“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di
mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi.
Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata
una regolare denuncia fatta da mio fratello”.
Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei
testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano,
Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?
“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è
l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello
Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.
Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al
Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di
giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?
“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera
dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a
mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti
nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni
sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non
può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello
Stato”.
Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha
dichiarato che “si interesserà al caso”.
“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro
giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro
sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei
Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone
di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni,
affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe
stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la
Cancellieri a smentirmi”.
Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001
denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…
“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane
di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due
suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre
Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In
totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a
tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di
Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.
Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i
testimoni di giustizia…
“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli,
che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di
Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto
opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due
aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.
Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a
Pompei.
“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.
E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?
“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate
delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e
all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei
nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto
blindate”.
Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.
“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non
credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.
Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti
grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.
“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati
per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il
braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi
non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di
riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con
l’usura”.
Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla.
Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.
“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La
scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il
proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia
incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per
eliminarla”.
Oggi come vive la famiglia Coppola?
“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un
centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà
per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al
Viminale”.
Lei ha due figlie.
“Frequentano il liceo”.
A scuola come vengono trattate?
“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro
amici, sicuramente condizionati dai genitori”.
L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non
prenderci il dito, la mano e il braccio”.
“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di
Roma”.
Esiste lo Stato nei suoi territori?
“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso
il posto dello Stato”.
LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò i clan. La famiglia
lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti
di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato
sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la
famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la
parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo
status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria
su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un
messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste
comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli
stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro
a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi,
nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno,
a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di
illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia
ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce
nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo
celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31
maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5
ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli.
Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di
notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà
davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due
incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e
il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui
esordisce affermando che, rispetto ai
testimoni di giustizia, “i
pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che
fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto
ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore
napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza.
Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e
Ottaviano, ognuno dei quali pretendeva la propria fetta sul fatturato di
Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto
dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà
2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una
diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre
dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di
Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In
quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi
hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non
erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi,
nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che
secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno
rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato
avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta
che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo
negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo
l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono
più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora
Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era
riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano
i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto
che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un
finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone
industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima
tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i
contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto
erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono
l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del
finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e
poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso
il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai
quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo,
l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato,
ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare
impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece
offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può
accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare,
malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato
elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava
di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai
250 mila euro a settimana che fatturava versando regolarmente tasse e
contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla
casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio
di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha
cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede
solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi
passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio
Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro.
“Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa
situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero
risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte
della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non
succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i
carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti
della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega
Francesco De Falco, che oggi
rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”,
afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a
conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati
nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a
causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto
che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del
danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia
perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato
dovrebbe pensare”.
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto
Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele
Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri
dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su
disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere
all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro
le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e
all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite
anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che
Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei
confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone,
delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli
inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i
capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua
fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni
fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime
finite nel giro di usura. Gli altri tre componenti dell’associazione a
delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori
insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione
come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su
disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati
sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza.
L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima
chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per
circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni
commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl
inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che
avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si
aggiravano tra il 150-180 per cento.
Da un fatto ad un al'atro.
Il Prefetto
(poco perfetto) del Bunga Bunga.
Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di
accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era
pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione.
Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro
degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di
pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco
Bechis per "Libero".
Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo
Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di
Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi,
che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime,
fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione
dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta
principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni
telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è
perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato
anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le
sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno
disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole.
È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle
prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il
presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano
senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba,
tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo
quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel
giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti
però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai
giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il
suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel
febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente
della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano
allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali
subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti
avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro
dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato.
Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per
parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua
denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro
sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei
confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale
svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui
si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla
procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce
bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti
sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il
racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello
sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché
tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai
prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul
serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno
ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate
tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di
Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G.,
denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la
somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare
5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze
di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è
stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per
corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale
naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua
inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i
verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che
poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le
feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina
marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel
cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci
sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in
altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a
telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29
settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà
essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che
faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E
facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con
due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza
reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la
sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il
prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché
diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista.
Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo
vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui
lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei
convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il
favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì
sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e
mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi
genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che
ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato
dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a
chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non
pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se
ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni.
Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...)
Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui
aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia
sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la
portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che
era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con
me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi
disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era
pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione,
insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è
nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e
lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una
puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande,
mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava
tutte....
Ed ancora. "Pizzo
come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina
militare. Secondo l'accusa, da più di
10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore
delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un
sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La
Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e
responsabili degli uffici imponevano il pizzo alle aziende fornitrici e
dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento
sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o
ostacolare i pagamenti. "Come la malavita organizzata", il
pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata
protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia
cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia
locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti
dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà
alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche,
dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il
"sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una
prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come
un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette.
I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello
Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori
del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo
reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla
contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato
Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono
stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di
vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di
Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore
della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore
Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd
Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore
Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto
Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di
Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse
dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a
seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della
pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice
assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi
autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi
materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava
direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in
percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento
ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è
decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di
reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5°
reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una
tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai
carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per
cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto
dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed
ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma
soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la
lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato
da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa
dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e
lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili,
assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi
gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale
arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina
militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e
buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni.
La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno
sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le
attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il
fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta
quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato,
compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".
Ma non è la prima volta.
Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è
stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di
Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina
Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare
per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La
richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona:
trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli
interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i
quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la
richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro
destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli,
attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto
Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro
Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio
a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle
gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti.
L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio
di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della
Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle
attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato
il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle
quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio
ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area
interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari
dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della
normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la
mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto
espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati
accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato
necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria
sulle navi militari.
E poi....
Denuncia un
concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa
in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla
procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo
Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari,
accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli,
il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel
dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era
partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura
dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei
confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica
interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore,
possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi
l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro,
ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche
annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo.
Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la
signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da
ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede
distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il
suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui
titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino,
vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio
di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati
da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza
accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di
ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il
rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di
Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in
moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono
indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli,
noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È
indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del
Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha
denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come
amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo
dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno
richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo
l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a
carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di
ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di
Economia dell’università di Bari.
E poi: la
ciliegina sulla torta.
Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono
3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni
in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino
«Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono
sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno
accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di
contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco
conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di
fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una
contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su
una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore
dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e
per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia
al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna
pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me
sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto
del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è
bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per
cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre
la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di
tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento -
scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede
rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi
decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa
altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro.
Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che
pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un
po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie
colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di
dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che
in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino
dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a
risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il
32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di
compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono
le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei
contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la
pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una
Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità
di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi
più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel
bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo
vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei
volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014
scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato
pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è
l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta
soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il
percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio
facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono
dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe
essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con
un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli
interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da
zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari
applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri
piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di
Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi
il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%,
a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse
dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto
vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).
E’ facile far passare i meridionali da mafiosi: a 14
anni e per sempre.
«Quella
bambina di 14 anni è un capomafia»,
scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento
dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di
conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss
di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma
‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei
personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino,
risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria
l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore
del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa
nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che
all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è,
anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la
fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e
territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno
(il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere
perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati,
infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da
parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La
ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia,
entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan
Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di
fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono
in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile
di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le
indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011
intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e
di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla
discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia
la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao,
salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa
trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la
città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia,
fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti
che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la
macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra
autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il
trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe
o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente,
si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il
tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto
all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono
essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14
anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche
perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto
contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si
tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di
fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si
trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e
cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la
riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti
della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini
confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di
un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli
inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare
delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per
la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata.
L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan
sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori,
l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di
congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio.
La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo
fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord
Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per
ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata
indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto
scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare
suo padre in carcere.
Mio marito,
’ndranghetista per sempre. Ma è
innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista".
«Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita
segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e
mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi
è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare
4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati
insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le
conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la
firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare
tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel
sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio
marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di
essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di
omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di
armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado
tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari
gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver
commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. –
all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato.
Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era
rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una
misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza
commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese
dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e
nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu
causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava
distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia
ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico.
Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una
grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi
una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e
fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa
carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994
decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di
appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro
entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta
questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in
Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia
italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un
duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse
ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese
l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che
nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi
d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci
fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato
dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti
collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di
panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per
poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva
potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del
suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel
carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio
1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla
Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi
seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un
avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece
malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a
chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato
trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto
fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé,
irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati,
assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano
la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A
marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma
non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e
incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito
restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio
dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei
accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che
dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che
rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero.
Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono
mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali,
ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo,
incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di
rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e
collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun
reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza
diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua
vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli,
mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.
Inutile ribellarsi. I Tribunali sono proprietà dei
giudici.
Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza
condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può
tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave
situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il
futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello
economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I
provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati
della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una
«grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica
dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza
di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il
processo medesimo».
In Italia si rileva che la Corte di Cassazione,
sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata
e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di
Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei
processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata
dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte
di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e,
sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche
quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.
Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di
Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta
di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento
giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo
lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte
d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In
quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono
rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula
dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del
leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi
impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San
Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state
concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel
processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda
Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta
di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe
sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi
era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali
ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto
pericolo di non imparzialità a Milano.
L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per
l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione
delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di
Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura
di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero
Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle
anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense
e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo
procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative
all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune
contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente
nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario,
costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".
C'è dunque una "grave violazione del diritto di
difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita
all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di
responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente
dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri
che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa
persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito
all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato
un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore
che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a
una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che
dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha
viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.
In realtà, i pm procedenti hanno valutato come
contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una
versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo
hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma,
"oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono
di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra
tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare
una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di
una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e
certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe
determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del
difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi
avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel
corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state
costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche
di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un
atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti
oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte
alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il
diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai
Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la
concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di
contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore,
l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.
Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di
Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel
denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con
il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo
sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si
ribella.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per
incompatibilità ambientale rigettata dalla Cassazione. «Le lettere scritte da
Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il
fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio
perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa
inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle
TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere
scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima
Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle
accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che
ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della
figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza
accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni
fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri
– che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale
sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si
diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I
familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente
che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la
difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il
clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto
un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato
Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna
di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una
ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere
Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un
passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi
difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non
avessimo adottato questa iniziativa».
«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono
rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata
dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare
contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale
franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai
cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto,
dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa
del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di
una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si
celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di
alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i
processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti
dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale
e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si
enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i
primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I
numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla
sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei
magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo
grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto
ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari,
all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di
magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di
quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle
“contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de
doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom
di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato
nel 2014. «L’incremento rispetto
all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35
milioni e 255mila euro». Dal
1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580
milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si
sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo
Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono
trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può
cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la
legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra
quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della
Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della
commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda
al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono
soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro»,
dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la
soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del
referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste,
c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.
Spero che la risposta si esauriente alla domanda
posta: CONVIENE DENUNCIARE?
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
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