Tutta la verità sul delitto di Sarah
Scazzi.
Chissà
perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da
Antonio Giangrande.
Caso Scazzi,
intervista allo scrittore Antonio Giangrande che da avetranese ha scritto due
libri: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese” e
“Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. La condanna e l’appello. Il resoconto di
un avetranese”.
Due libri
sul caso Sarah Scazzi. Interi reportage che raccontano un omicidio e tutto ciò
che lo circonda “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore
Keaton dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese
Antonio Giangrande. Risultato? “Un processo da rifare e due persone, Sabrina e
Cosima, non legalmente in carcere indipendentemente dal fatto che siano
colpevoli o no”. Un analisi approfondita, quella dello scrittore, dalle
confessioni ai processi, dall’analisi dei personaggi alle intercettazioni
ambientali e telefoniche. Giangrande è anche presidente dell’associazione
Contro tutte le mafie ed è da anni che si occupa del caso Scazzi e di altri
processi che ritiene “non correttamente svolti”.
Da quale pulpito vien la predica,
dott. Antonio Giangrande?
«Nasco da
una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa.
Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il
povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Quelle famiglie che, se
ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche
da innocente. A me non è successo, ma sin dal caso Tortora ho capito che in
questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di
sinistra perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si
tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. Eppure la presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo
permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro -
al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia”
diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di
telecamera. «Assassina/o, devi morire», gridano i popolani fuori le caserme o i
commissariati. Urla e insulti da parte della gente che si raccoglie in folla
per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “colpevole di turno”. Ma questi
non hanno niente da fare?E’ successo a Cosima Serrano, Sabrina Misseri, a
Veronica Panarello. Anche Anna Maria Franzoni
aveva sentito quelle urla la prima volta che l’avevano portata in prigione
pochi giorni dopo la morte del piccolo Samuele. Le scene che abbiamo
visto a Cogne e ad Avetrana, per citare solo due dei casi
più famosi di cronaca nera degli ultimi anni, dovrebbero spingere, con un
pizzico di cinismo, a non stupirsi più di tanto delle urla scagliate contro Veronica Panarello, accusata
dell'omicidio del figlio Loris,
al momento del suo arrivo nel carcere di piazza Lanza a Catania. In carcere, questo odio
sociale, espresso a ruota libera sul web («devi morire», «ci vuole la pena di
morte»), è ancora più duro. Il carcere non è solo un luogo di pena. E’ la
realtà che credevi non esistesse, e che adesso appartiene alla tua vita. In
effetti, i giornalisti stazionano nei piccoli centri con aggiornamenti costanti
relativi all’evoluzione del casodi cronaca e riportando qualsiasi notizia utile a farne
parlare. Ma qual è l’utilità della ripetizione continua e morbosa di immagini
di volti straziati dal dolore? Volti di mostri che potrebbero anche non essere
tali. Qual è, dunque, la linea che separa la cronaca dall’accanimento? Il
confine entro il quale la notizia secca viene preservata dal divenire puro e
semplice gossip? Venti anni di “telenovelas” e di “politica del qualunquismo”,
somministrato a suon di sorrisi, hanno reso questo confine labile, estremamente
labile. L’accelerazione della rete, poi, ha esasperato e dilatato a dismisura
un fenomeno complesso ma certo inarrestabile. Nonostante ciò, il problema
resta. Resta il problema di comprendere dove arriva, realmente, la cronaca,
cioè la narrazione dei fatti, per garantire alle persone strumenti di
comprensione e dove, invece, comincia la speculazione. Come nel caso della
notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, data al programma
televisivo di Rai3 “Chi l’ha visto?”, mentre in collegamento diretto da
Avetrana c’era la madre della ragazza. Gli arrestati sono innocenti fino a
prova contraria. E non basta dirlo, come hanno fatto alcuni conduttori tv che
nel frattempo speculano sulla morte delle vittime, bisogna anche praticarlo. In
Procura e sui giornali. Ma qui vogliamo provare a ragionare per assurdo. E ci
chiediamo: ma anche se fossero colpevoli, meriterebbero di essere
insultati e linciati, come stanno facendo media e cittadini-spettatori? Se sono
colpevoli, anzi poiché sono colpevoli – dicono gli urlatori senza conoscere
atti e fatti – non devono stare in carcere solo pochi anni, devono stare in
galera per sempre. «Dovete – dice questo coro di giustizieri – buttare la
chiave». Accusati ma innocenti fino a prova contraria. Accusati, ma non ancora
definitivamente colpevoli davanti alla legge. Eppure, i media li hanno già condannati. Quello che importa in questo
contesto non è se sia colpevole o innocente. Quello che importa qui è che ogni
giorno, accendendo la tv o la radio, sfogliando un qualsiasi quotidiano
cartaceo o online, veniamo a sapere di particolari, di dettagli di ogni
interrogatorio, di ogni domanda posta dagli inquirenti, di ogni risposta data o
non data: informazioni riservate
inerenti ad atti di indagine che dovrebbero essere coperte dal segreto
professionale. Bene. Qui non c’è reato? Mi chiedo come sia
possibile questa totale mancanza di umanità. In nome delle vittime si
giustificano i sentimenti peggiori: la vendetta, la violenza, l’odio. Ci si
crede superiori a chi si condanna. È come se, nel giorno del giudizio, si
stesse dalla parte di Dio a decidere chi deve essere punito e chi premiato. Il
male appartiene all’altro, al mostro, a cui non si riesce a guardare con un po’
di umanità e di amore. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il
reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. In questi
casi di cronaca mediatica lo Stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa
un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all’occhio per occhio,
dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle
persone. Siamo davanti a un mutamento antropologico e cognitivo profondo. Ogni
tanto sembra di cogliere segnali di un ravvedimento, di un ritorno a principi
di civiltà. Ma poi ci accorgiamo che la storia più prossima ci racconta invece
che stiamo attraversando un’epoca buia, senza pietà e senza capacità di
identificarci con gli altri: con il loro dolore, ma anche con le loro parti
buie, con le loro sofferenze ma anche con quella cattiveria che c’è nell’essere
umano. Negandola diventiamo ancora peggiori. Ci sentiamo la parte buona della
società, i migliori, e da questo ingannevole pulpito spariamo le nostre
sentenze. Ci si crede superiori a chi si condanna, come se venissimo da Marte.
Da un altro pianeta. Ma siamo italiani e lo rimarremo per sempre. Nessuno è
migliore di un altro in questa Italia. Decine di miei saggi in anni di studio
sociologico tendono a dimostrarlo. Uguali nella devianza. Siano essi giudici,
che giudicati. Le donne che hanno aspettato le loro simili uscire in manette,
con lo smartphone in mano per fare le foto, non hanno avuto dubbi sulla loro
colpevolezza – lo ha detto la tv, lo dicono i giudici – non hanno avuto pietà
per donne come loro, per le loro paure e fragilità. Ci si chiederà ma le
vittime che fine fanno in questo discorso? Non interessa che siano state
uccise? Certo che interessa e che dispiace molto. Ma non è rinunciando alla
presunzione di innocenza, né evocando la vendetta che li si riporta in vita.
Non è così che li si piange. Il linciaggio e l’odio che vediamo esibirsi
rendono solo questa società peggiore».
Lei ha la preparazione professionale
per poter dire la sua in questioni di giustizia?
«Non sono un giornalista, ma a quanto
pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti, compresi quelli favorevoli alle
imputate. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di
un sistema giudiziario a se stante. La mia laurea in Giurisprudenza presa in
soli due anni a Milano, con moglie e due figli da mantenere, dopo aver
conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista, mi ha reso
immune da ogni condizionamento. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio
legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a
corrompermi. Per questo è dal 1998 che non mi abilitano alla professione di
avvocato in un esame di Stato che come tutti i concorsi pubblici ho provato con
i miei libri essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale
agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e
parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta
libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione».
Ha scritto due libri sul caso
Scazzi. Su cosa si è basato?
«Nei miei
libri su Sarah racconto i fatti attraverso tutti i documenti del processo e
riporto, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo
imparziale».
Imparziale? In che senso?
«Faccio
una considerazione per renderne l’idea. Il processo, per opportunità, non
doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avvocato Coppi ha avuto il coraggio di
chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i
giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti
sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia
mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di
Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son concordi nel credere alla sua innocenza,
compresa Francesca Conte. Lo stesso discorso vale per i criminologi esperti presenti
in tv, come Massimo Picozzi od Alessandro Meluzzi. Di conseguenza cade l’accusa
per Cosima, per la quale addirittura non c’è nient’altro che un sogno».
Quindi giudici non sereni, e gli
avvocati?
«Per
quanto riguarda gli avvocati mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del
foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è
stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no. Per quanto
riguarda i consulenti tecnici invece, c’è da dire che chi è partito a sostenere
una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone,
con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, è accusata dallo zio
Michele di averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessandro
Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina,
cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza».
Mentre i magistrati?
«Per
quanto riguarda i magistrati c’è da sottolineare che in appello il sostituto
procuratore generale, Pina Antonella Montanaro, è lo stesso Pubblico Ministero
del caso Sebai. Il serial killer non creduto, ma condannato per l’unico
omicidio per il quale non vi erano stati trovati colpevoli. Per gli altri
delitti ci sono condannati che in carcere si professano innocenti. Il Giudice a
latere, Susanna De Felice è il giudice che ha assolto Niki Vendola. La Procura
di Taranto è invece rappresentata da Pietro Argentino, indagato per falsa
testimonianza in quel di Potenza. La falsa testimonianza è quel reato di cui si
accusano tutti i testimoni che hanno reso dichiarazioni che non erano in linea
con la tesi accusatoria».
Insomma dubbi sulla serenità di
giudizio. Li ha potuti verificare in altre occasioni?
«Recentemente
la Corte di Appello ha accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini
di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena ha avuto la
parola dal giudice, si è premurata di chiedere di far restare le due donne in
carcere. A suo dire la richiesta è d’obbligo perché il processo sarà
particolarmente complesso. In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e
con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo
sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, più
avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di
custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere
respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con
una reprimenda per l’intempestiva richiesta della PG».
Ma questo non porta a dire che le
due donne, condannate in primo grado all’ergastolo, siano in carcere
ingiustamente. Ci sono elementi invece che potrebbero sostenere questa tesi?
«Ovviamente.
In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono
essere gravi, precisi e concordanti. E questo non risulta. Orari tirati da
tutte le parti; testimonianze contraddittorie, dubbie e/o oniriche, perizie
contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti
indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di
magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno
interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci
su un fatto in particolare e fondamentale».
Quindi c’è un fattore più importante
di tutti questi?
«Certo. In
ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne
dichiari la paternità è considerata la prova regina. Ad Avetrana abbiamo un reo
confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare
il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata
dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’Assise di primo
grado inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della
versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni
di Michele sono credibili solo a convenienza».
E così sarebbe Michele l’assassino?
«Non posso
dirlo ma una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere
considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina
può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è
opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non
concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio, che viene
contestato dalle testimonianze di chi, invece, nello stesso momento del
rapimento ha visto Sarah libera, viva e vegeta. E ciò basta a far marcire in
carcere un essere umano».
Quindi Cosima sarebbe un’altra vera
vittima di tutto questo?
«Io credo
che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda
meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per
colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai
colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è
escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale.
Perché? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei
fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di
verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah».
Ma lei si ritiene innocentista?
«Io non
sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista sono un
semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e
Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità
storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi, ripeto a dire, che tutti
saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. Sarà la Cassazione
a Roma, in lontani lidi, a rinfrancare la giustizia. La Suprema Corte non
potrebbe non vedere i travisamenti di questo processo: che la Corte d'Assise sia
stato presieduto da Cesarina Trunfio, vicino all’ufficio della pubblica accusa,
quale ex sostituto procuratore di Taranto; che un giudice popolare sia
stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio
pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un
loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le
sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di
custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti
indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. E poi l’abominio totale. Se
un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo
innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la
verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno
trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un
processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore
ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge
l'accusa nel maggiore, invece inizierà solo il 2 marzo 2015 di fronte al
giudice monocratico di Taranto e forse non sarà neppure celebrato, perché
si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura, data la durata delle
indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore.
Da non dimenticare poi, le speculazioni della Rai su Sarah Scazzi. Un processo
pubblico che diventa cosa privata. La Rai impedisce l’uso pubblico delle
immagini del processo di primo grado per il delitto di Sarah Scazzi. Un aspetto
che i giornalisti stanno bene attenti a non approfondire. La Rai si è
aggiudicata l’esclusiva televisiva del processo più mediatico della storia: a
quale costo? A chi sono
andati i diritti tv per le riprese esclusive del processo a Taranto? Al solo
privilegio della tv di Stato in dispregio della libera concorrenza, o qualcuno
ci ha guadagnato, perlomeno in visibilità? I difensori di Sabrina e Cosima si
sono duramente opposti alla riprese televisive del processo e, in particolare,
delle loro assistite. La Procura si è dimostrata favorevole alle riprese, così
come la famiglia di Sarah. Cesarina Trunfio, presidente della Corte d’Assise di
primo grado, ha stabilito il divieto di ripresa per tutte le telecamere, tranne
per quelle della trasmissione "Un giorno in Pretura", in onda su
Rai3. Il programma poi si impegnerà ad inoltrare le riprese alle altre
trasmissioni. Per quanto riguarda la trasmissione integrale del dibattimento,
sarà consentita a definizione del processo, e quindi dopo la sentenza di primo
grado. Perché questa discriminazione mediatica? Perché questo uso monopolistico
del diritto di cronaca? La Rai ha cessato ogni rapporto con youtube, dove i
suoi video erano visibili nel suo canale predisposto e da cui si potevano
estrapolare o inserire nelle pagine di terzi, previo rispetto dell’indicazione
di autore e testata. Poca remunerazione dissero. Oggi chi vuol visionare i
video Rai deve purgarsi con 30 secondi di pubblicità e comunque l’utente non può
scaricare il filmato con le immagini del processo, alla faccia dell’impegno
dell’inoltro alle altre trasmissioni. A prescindere dall’obbligo posto dalla
magistratura tarantina, c’è un articolo, nella legge sul diritto d’autore, che
rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene
chiamato fair use e fair dealing: è l’art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63,
che al primo comma recita: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di
brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se
effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali
fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica
dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo
deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.”
Questa norma è la massima espressione del concetto di libera utilizzazione.
Eppure la Rai contesta ogni video riprodotto da terzi su Youtube senza scopo di
lucro ed a fini di critica, cronaca, divulgazione scientifica, a costo di far
chiudere i suoi canali, reclamando la violazione del Copyright: “Dopo aver
esaminato la contestazione, Rai ha deciso che il reclamo per violazione del
copyright è ancora valido”. Così avvisa Youtube dopo la segnalazione della
contestazione. La Rai è un’azienda pubblica e di pubblico dominio sono le sue
opere. Anche perchè gli utenti, in qualità di contribuenti fiscali e pagatori
del canone, finanziano la Rai e sono di diritto soci e quindi proprietari delle
opere prodotte dall’emittente di Stato. Perché speculare su un delitto,
impedendo da divulgazione delle fasi del processo, fregarsene delle norme sul
diritto d’autore, disobbedire agli ordini del giudice di Taranto e far finta di
niente? Le fasi del processo sul delitto di Avetrana non devono cadere
nell’oblio, ma devono essere visionate e ben conosciute per poter trarre giusto
giudizio senza mediazione opinabile».
Dr Antonio
Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
PUOI
TROVARE I LIBRI DI ANTONIO GIANGRANDE SU AMAZON.IT, CREATESPACE.COM O SU
LULU.COM
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