TOGHE
ROSA
“TUTTI
DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo
per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che,
secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti,
agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni
a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di
avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò
Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di
depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore.
Il
rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato
dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del
24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a
vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di
testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi
approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato
di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio
nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances
sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa
insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso,
insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel
processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le
dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la
trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi
avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini
difensive. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto
e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del
collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro,
Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha
deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa
testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di
testimoni che hanno sfilato davanti alla corte. D’altra parte anche Bari vuol
dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe
pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter
Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort
portate alle feste dell’ex premier.
Dici
donna e dici danno, anzi, "condanno".
Ruby
2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e
trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i
suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale.
Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa
Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima
El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un
incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio
le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era
lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso
ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo.
La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto,
presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose,
condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e
appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla
tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi. Manuela Cannavale, invece, ha
fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni
di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Paola Pendino è
stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di
Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato
assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby
1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi e trasmesso gli
atti per far condannare i suoi testimoni??
A
condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la
D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. Giulia Turri, Carmen
D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che
hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La
loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti
di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino
dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso
chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica
De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo”
arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche
elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse”
soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi
più brutte della Bindi”. Per qualcuno il problema non è tanto che si
trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”.
Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere
della condanna.
A
presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in
Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno
dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del
finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006,
pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del
2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio
Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente
Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli
ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca,
risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su
un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in
particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi
locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che
sono sfilate in aula.
La
seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un
passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato
alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega
Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri
medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è
visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per
via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen
D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002,
ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come
imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del
premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido
Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003
pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare
Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante
e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla
truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Ida Boccassini, che
rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia
orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia
orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come
obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il
sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro,
la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel
mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la
Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui
sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute,
ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle
istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la
europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate -
afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi
prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la
certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino
a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel
processo.
Donna
è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero
Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia
Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11
agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Ma anche Giusi Fasano per "Corriere della Sera" ne
dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli
del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario»
finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di
reati...» è la sua filosofia.
Donne
sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i
testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come
imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra
il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il
giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo
ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare
l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei
sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono
coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a
latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che)
negheranno in radice».
Donne
sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice,
il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che
rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita
alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del
politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione)
inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio
segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del
governatore, Patrizia.
Donna
è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. La procura di Lecce ha
aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha
condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione
per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore
Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino,
alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha
colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura.
L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24
ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo
l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici
Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo
processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale.
"Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura
barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna
elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo
di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente
del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi
e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per
i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto
valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione
di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio
di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla
missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece
aveva avuto tempi molto più lunghi, proprio perché toccava imputati di
sinistra.
Donna
è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio
Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa
denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato
per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha
condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro
di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è
emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che
aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. La Romano ha condannato chi si
professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua
testimone.
E
dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma
visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a
dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un
collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si
fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia
estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello
che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che
non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la
famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera
per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria,
altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma
quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli
dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione
delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato
il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7
della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle
professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente
dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del
1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere
cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al
P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea
Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed
in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura
della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne
che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione
del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “
soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il
complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si
ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità
nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto
alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità,
specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più
articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si
ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione
giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare
con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua
sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi
della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da
ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione
che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle
donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i
quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in
quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza
popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione
della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo
all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere
agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti
stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore
ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle
funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi,
e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la
legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi
di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere
uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si
affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici
servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun
sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza
giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della
Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato
dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato
parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919,
nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che
implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse
una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l'
accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,
compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano
svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127
vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto
ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla
partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5
aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso
l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo
dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per
aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30%
- 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a
superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in
magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben
presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede
le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello
degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di
assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di
discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più
marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello
degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne
magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno
inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico
modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato
unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed
introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena
legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro
ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave
quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli
uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e
della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle
donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello
dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate
gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,
tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole
comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al
femminile.
Certo
che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio
ce l’hanno?
Certo
che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
Questa
è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i
grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della
Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli
ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei
giornalisti?
«Mi
fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno
assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti.
Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa
nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi
un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro
sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non
solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il
Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da
Montecitorio...
«Le
Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era
una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la
tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No.
Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io
lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non
so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per
sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non
ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere
professionista».
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
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