TARANTO
FORO DELL’INGIUSTIZIA.
MICHELE
MISSSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO
L’ILVA.
Il
paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza
cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in
carcere.
A
Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono
creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di
pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni
d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi
dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa
il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti
in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza
mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e
concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare
la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di
procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a
cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la
gelosia.
Ivano Russo: «C’è stato un
momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi
ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere.
Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho
chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che
praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato
con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di
grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In
virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta
fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special
modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati
conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia
nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli
delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano
mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria
Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa
al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è
intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò,
coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un
programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete.
E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi,
ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una
bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah
non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa
D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo
che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a
Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli
confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione
ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva
in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni
non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore
di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su
richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa
difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando
in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando
l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di
falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere
accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto
dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il
suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un
evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena;
è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della
testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del
problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una
testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia
una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e
situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la
grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone
oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della
testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile
l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un
individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi
occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da
molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi
precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica,
mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno
dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale
l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi
mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della
situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa
essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la
corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il
rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo.
Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di
giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce
una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per
giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di
sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra,
infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone,
sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla
credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie
crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra
loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa
dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli
marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la
possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi.
Detto questo e in riferimento alle
confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il
“killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo
appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i
magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale
non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel
reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben
Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette',
trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il
legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi
sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il
legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio
una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era
infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto
non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da
piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a
casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per
altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere
l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997.
«L'ultima
volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto
la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva
chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino.
- Secondo
Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime
errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare
altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del
suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati
dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per
altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere
l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997.
L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo
quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato
colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva
provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette
l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta
su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella,
la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua
abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al
serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la
confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico
Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di
un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato
l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di
45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per
altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso
e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene
d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente
la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a
18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera
(Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi,
la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie
che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità».
«Due confessi omicidi che a Taranto non
sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la
magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non
era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo
Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore
dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto
ha scritto dei libri inseriti nella collana
editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi
pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono
a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
Basta ricordare i precedenti. «Non ha
altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a
Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo
chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla
mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso
una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non
volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho
ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto
Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula
durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il
contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia
e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la
responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli
innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega
Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai
tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta
trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho
detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta
il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre
violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è
stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non
vorrei rispondere a questa domanda».
Caso Michele Misseri e caso Sebai,
stessa sorte, stesso muro di gomma.
Il 13 febbraio del 2009 il giudice per
l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per
l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile
del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di
Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv.
Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di
parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4
ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare
altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare
detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria
Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia
Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo
assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto
1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto,
Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare
l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della
vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a
18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo
Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere
rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via
Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove
abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo
le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto
da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama
zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe
abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte,
sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe
tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane
massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia
omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso
sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i
carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con
la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10
anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra
sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di
Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era
la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e
ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli
o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte
della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe
qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai
carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo
aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la
Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per
omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio
della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di
sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai:
visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in
relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase
investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola
di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini
sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla
foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto
da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini
sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella
(non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di
caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò
al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per
una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla
confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato
l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono
stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre
‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava
innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere
milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli
ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di
odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia
psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro
omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste
uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e
gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.
La Vergogna di essere italiano. Faiuolo,
Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli
solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed
Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si
macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il
legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non
essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a
Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati
condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno
delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia
chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di
parzialità nel giudizio. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà”
dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare
in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata
vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di
Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel
2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua
abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già
nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole
dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli
solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore
ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la
sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non
ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata
liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta
sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione
del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei
confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico,
anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto
persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli
anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine
Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è
l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni
di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta
anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i
minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli,
all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di
un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione
dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano
riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il
signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri
di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore
del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e
successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore
del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti
omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:
gennaio 1994, presunta vittima ignota,
in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito
dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto
nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è
l'unica vittima sopravvissuta;
8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni
83, Melfi (Potenza), assolto;
13 agosto 1995, Commessatti Celeste,
anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati
Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito
Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;
24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni
81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;
30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina,
anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla
confessione di Sebai;
10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85,
Ginosa (Taranto), ergastolo;
15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76,
Cerignola (Foggia), ergastolo;
5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni
76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni
di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;
1o maggio 1997, Stella Anna
Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione
di Sebai;
9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82,
Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;
14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni
86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo
Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;
28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84,
Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per
Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e
sorella;
21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia,
anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;
27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84,
Spinazzola (Bari), ergastolo;
15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75,
Palagianello (Taranto), ergastolo;
per il delitto del gennaio 1994, ai
danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque
ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte
digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni
dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le
foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto
impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati
sin dal 1991;
per il delitto del 13 agosto 1995, ai
danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva
sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte
digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa,
manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai
successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;
per il delitto del 1o maggio
1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive,
furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla
scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di
Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte
digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti
disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor
Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena
del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al
Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La
procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle
vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è
credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro
pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia
l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata
in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.
Altra vergogna, altro precedente.
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15 aprile 2007. Carmela volava via, dal
settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma
soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si
era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive
Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via
da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze
sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la
malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di
tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno
pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed
imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di
essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né
assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma
le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto
disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.
Altro precedente. È il più clamoroso
errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di
staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e
500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22
giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di
Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione
insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha
capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo
che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura
dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte
d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica,
Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno
subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in
situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà,
rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato
scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio
’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di
Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime
indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo
scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti
svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati
perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci
sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche
l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono -
racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo
Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho
passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la
sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu
schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu
anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se
l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Altro precedente: Non erano colpevoli,
ora chiedono 12 mln di
euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo
Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono
tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di
Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele
Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della
psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere
presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro
rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte
d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che
a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a
liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non
incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da
pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle
vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia
difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una
considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di
chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa.
Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto
hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo,
di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali,
si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei
provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la
salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi
danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio
Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da
verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari
per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute
nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi
sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora
non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È
un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri?
Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi
dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così
facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di
Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto
della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose
per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo
stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa».
I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le
improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e
dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa
senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali»
(articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle
indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale
stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività
produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge
il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita
con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride
amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a
passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo
nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il
presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui
nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura
solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi,
chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza,
ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva,
dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto,
oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini,
alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come
per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi.
L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido,
un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl
e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte
mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva
già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex
assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si
evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto
accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia
di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o,
in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare
ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro
dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non
è un potere.
Se l’articolo 1 della Costituzione detta
che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che
legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo
straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura
costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol
significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne
l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì,
non Potere.
Ordine, non potere, come invece il più
delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però
aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo
il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente
avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo
sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che
di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è
amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”
Ergo: i magistrati devono applicare la
legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono
sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può
essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli
castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li
santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi
inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina,
chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene
chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»
Una cosa è certa: a Taranto non si deve
dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande:
denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese
retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato
a Potenza per diffamazione a mezzo stampa. Processo che dura da anni e che non
vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti,
della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande
non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine
normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello
che oggi non si osa dire.
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro
Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396 – 328.9163996
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