L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.
«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir
virtute e conoscenza» Dante Alighieri.
Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore,
sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte
le Mafie.
Tutto è rito, e l'antimafia è liturgia. “Non ci
interessa la retorica, la liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24
dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così
Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un
quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando
un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la
Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca
Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio
Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino,
Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino
Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può
essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo
show”.
Scuola ed antimafia, scrive Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia
di Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro
della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia
all'interno della scuola, e questo è grave, sia all'esterno: cioè che noi
insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un
motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia
della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato, di
Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre...
ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti, questo è il
mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo nostre le dieci tesi
di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai nostri alunni a muoversi
da protagonista all'interno dell'universo della comunicazione. Quando
insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e comprendere, a parlare e
scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni comunicative e con scopi
diversi. Solo allora saranno in grado di scegliere. Perché se ci limitiamo a
proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il possesso della lingua, noi
conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro ne conosceranno sempre
mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere per loro. Sceglieremo,
giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a scegliere, non loro.
E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano immediatamente date,
fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E
dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso sociale verso la
mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli
strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un
politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il
loro impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita
scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo 'don Rodrigo
aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo voto
per un pacco di pasta... però se Renzo, se quell'operaio avessero avuto gli
strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare contro
l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate meglio. In un'epoca in cui le
grandi ideologie, l'aggregazione politica non esistono quasi più, in cui la Tv
spazzatura è il modello di riferimento culturale per moltissimi, dare agli
alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare promesse messianiche,
ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la vera scommessa della
scuola per la legalità.
Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo
scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in
una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di
subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è
questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio
viaggio verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la
soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce
con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche
che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto
si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i
loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema
esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non
debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi
dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è
anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora
giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e
altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati
attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè
l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che l’intelligenza e il
passare degli esami siano la stessa cosa.
Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo
parere troppi lo fanno a sproposito. C'
è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di
Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza,
l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato,
dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan
per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo
della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da
Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti
italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato
emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le
vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in
Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è
stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un
custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza
dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che
posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il
dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in
macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo
io».
Perché non si fidava di nessun altro?
«Quale altro motivo ci sarebbe?».
Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?
«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che
questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco.
Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha
rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di
uccidermi. I vertici della Rai dormono?».
Cosa proponi?
«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono
dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».
Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.
«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde
sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».
Su che fronte?
«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i
mandanti? Io un'idea ce l'ho».
Avanti.
«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico
che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».
Ne sei convinto?
«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse:
"È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».
Questa è una notizia.
«Ma non se ne parla».
Vai avanti.
«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata
una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il
potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti
quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali
sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».
Chi non lo voleva all'Antimafia?
«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma
queste piste non le sento nominare».
Torniamo ai mandanti.
«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che
è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da
dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta
di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella
capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano
farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».
21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene
trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.
«Io c'ero».
All'Addaura?
«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un
carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della
cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha
dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho
testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».
Invece come è andata?
«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a
qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali
pressioni».
Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?
«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee,
ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando
parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i
mafiosi, quelli bisogna individuarli».
23 maggio 1992: eri a Capaci.
«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene
detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario
di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del
suo arrivo».
Cosa ricordi?
«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era
davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che
una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui
istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai:
"Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose:
"Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione.
Non ricordo altro».
Perché la gente non sa che eri su quella macchina?
«Mi hanno emarginato».
Chi?
«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione
Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».
La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la
sorella di Giovanni.
«Io non la conoscevo».
In che senso?
«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone
sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola
volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il
fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».
Poi?
«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione
Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».
Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri
alle celebrazioni del 23 maggio 1993?
«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi
hanno allontanato».
È incredibile.
«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due
anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi
ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi
avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».
E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato
prima?
«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È
il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato
a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni
fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la
sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che
Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe
Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».
L' emarginazione c'è sempre stata?
«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in
servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un
sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi
hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».
Per l'ennesima volta: perché?
«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».
Come sfortuna?
«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle
vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare.
Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti
"amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so
chi erano i suoi amici».
Chi erano?
«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a
lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».
Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti
di Falcone?
«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio:
lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il
turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo
era Falcone».
È vero che amava scherzare?
«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro
livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».
Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?
«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che
però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto
per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è
stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla
collettività».
Il presidente Mattarella non ti dà speranza?
«Io spero che il presidente della Repubblica mi
conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno
parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una
mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo
rispondere ai miei nipoti?"».
Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto
siciliano?
«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è
diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».
Prego.
«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un
certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina,
mi indicava come "l'autista di Falcone".
Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe
Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato
per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato.
Cosa gli costava nominarmi?».
Costanza, credi nell' Antimafia?
«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una
reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi
economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a
me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici,
penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno
parla di noi».
Il 23 maggio che fai?
«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo
personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non
vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».
Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito
buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno
dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno
da una parte all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il
microfono dei giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su
twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini
di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno
proprio quelli che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola.
Faranno a gara per raccontarci come combattere ciò che loro proteggono.
Spiegheranno come custodire l’immensa eredità di un magistrato coraggioso;
loro, proprio loro che ne hanno trafugato il testamento, alterato la firma,
prodotto un perdurante falso ideologico che ha consentito ai loro partiti di
rinverdire i fasti di un eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati
come i santi. Ci sarà anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello
e firma dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile
che ha costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza,
l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle loro
azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non
seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola allegra da un
mi piace all’altro su facebook a commento di striscette melense e ipocrite che
inonderanno la rete con una disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia.
Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io
non voglio farne parte.
E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21
luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche
minuto, una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al
sole. Ci si rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore,
impregnate di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini
e non dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il
rito e la liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per
onorare il contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare
gli italiani così da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto.
Molto bene. Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di
Corleone" alla Commissione Antimafia - quella in cui l'interrogato in
merito all'esistenza della mafia, rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà
anche la mafia" - la Rai certifica l'esistenza dello Stato. Ne è
infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore del panorama
televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di dipendenti, ha
prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque Telegatti, premi
di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una produzione in
Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò a ricordare
il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto questo
scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno successivo alle
retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto collaboratore di un
direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un tizio per la
nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un
personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza,
che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi
insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma
pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue
tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito
…". Non ho nemmeno bisogno di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa
tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria telefonica (la si può
ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e
uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a conoscenza della
telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti ancora del caso di un
singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno, ampiamente, che non era così.
Incontri successivi e lettere per denunciare la situazione producono il
silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo, nella mia persona di allora
presidente, decide di procedere penalmente verso i protagonisti della nostra
distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la pubblicizzazione della telefonata
incriminata il protagonista della stessa risponde così a il Fatto
Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in Sicilia, devi sottostare
alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per
aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile,
dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi
mai”. Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la
veridicità di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà
eseguire ventotto arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello
stesso, la produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi.
Non erano attratti dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità
di controllarne i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere
come comparse parenti e affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga
all'interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli
stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si era
capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di diversi
anni - le soap opera possono durare decenni - in uno dei distretti a più alta
disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla
messa in onda della fiction Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: -
la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare. L'imprenditore
"proposto" nella telefonata dall'incaricato Rai verrà
arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di
estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d'imprenditori polivalenti che,
oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo spettacolo,
diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua compagine era
riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione
esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta
alla mafia). Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a
sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai
registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo
neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare
perché "non possiamo permetterci di abbassare la guardia". Antimafia
e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui
professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una
macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio 2016
su "Il Foglio".
Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo
Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro,
boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due
piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a
destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo
onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza
fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla,
quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare
sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò
che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna
elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino
poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto
“Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito
dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989
andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era
praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo
Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che
fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era
una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando
cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una
paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato
al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don
Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò
a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che
dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa
minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato.
Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto
breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono
semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”.
Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina
sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima
domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò
sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò
un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza
e nulla più”.
Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si
azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la
compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già
processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei
galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni
si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per
estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco,
prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la
mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini
dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui
quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e
soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava
o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che
portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di
autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No,
questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi.
Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di
Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad
abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come
“icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità
dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il
testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e
di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi
misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue
complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato
l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e
più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per
meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi –
terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno
sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e
cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non chiameremo “gentuzza”
nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che
non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che
non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non
pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che
siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore
della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica,
può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco?
Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e
in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine
settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a
presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza
vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto
Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote
dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in
borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono
già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una
domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli
stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti
uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette,
forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il
Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della
lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici
più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro
studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni,
il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice
ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia
ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un
tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore
Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione
parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora
consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un
processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la
mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere
in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e
che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia
sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei
magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa
qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio
Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore
della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista,
Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino
mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel
braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei
magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte
e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi
un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore
Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice
assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice
fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata
come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti
mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe
stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe
Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo –
i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata
all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di
periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in
Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che
Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la
passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato
la formula del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e
scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di
tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un
indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto
feroce. L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi
imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre
giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per
questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi è
quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di
tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde
Giobbe.
La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola:
“Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011. Secondo 19
deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una
commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Ma il testo che più si
distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo
i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano,
viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva
europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava
ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”.
E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i
parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del
Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli
autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla
magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla
Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da
Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”.
L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto -
conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della
questione”.
Dr
Antonio Giangrande Scrittore,
sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte
le Mafie.
099.9708396 – 328.9163996
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