INCHIESTA ESCLUSIVA.
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI;
PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO
GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E
l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di
dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le
richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne
faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale
diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse
sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah
Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia
plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le
disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista
anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti.
E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I
Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci
sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto,
essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con
un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia
avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e
non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i
protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e
gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino,
che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non
indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure,
attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del
film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah
Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere,
convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli.
Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono
prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di
nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui
si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese
civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare,
l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande,
avetranese doc. Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi
sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda.
Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con
video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non
omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e
dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per
conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che
dice.
«Via
Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori
senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la
soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella
vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia
e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi
dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe
inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano
tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate.
Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita
consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili
con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il
collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca
Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto
Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di
essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che
accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di
Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo
della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti
delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via
Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per
l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già
pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in
Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver
rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher,
la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due
novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto
Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13
agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne
uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco,
errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così
come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa,
inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che
poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC,
poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata
cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe
volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non
sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta.
Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove
poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai
due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto
questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli
investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può
spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del
crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e
persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il
gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul
pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha
conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni
di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi
gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della
sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna
di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è
lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer
mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in
primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi
dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia,
Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non
sovviene in questi casi, allora quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha
mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai
potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e
proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa
dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo
cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale
“L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in
cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno
osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia:
la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i
difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e
dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e
promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a
farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha
mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana
abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non
me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il
personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso
per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere
diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia,
invece, seguono i miei video e leggono i miei testi, ritenendoli
importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui
fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro
di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur
pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a
migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere
giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che
rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati
politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei
Misseri, e vivere di luce riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente
non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati
degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri
fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della
Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno
scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque
tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno
fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili
natali. Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e
onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non
vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche
perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il
mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo
spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da
parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia
e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto
a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed
usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità
locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De
Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me
è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è
chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno
agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr
Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un
mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli
insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si
denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei
media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in
patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè
"non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua
patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare
Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più
importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar
buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza
altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la
sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video
pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o
potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro
canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro
pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti
arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla
confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che
era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque
del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un
paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore
di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi
secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti,
mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano
che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare
le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è
circondato da amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa
ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già
segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere
l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se
non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia
finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di
Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono
ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han
fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento
quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le
sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti
pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni
non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che
finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si
pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera”
hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni
confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le
Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso
la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere
iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata
costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale
riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di
abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della
magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva
degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare
pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti
avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi
previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale
anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti
i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi
impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati
all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza.
Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho
nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico
di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere,
inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di
svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio
legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è
più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle
toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne
subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per
diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare
e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre
cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a
me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in
cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove
dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice.
A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la
testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”.
La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro
loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i
magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini
contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di
tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede Potenza. In virtù
della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della
santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo
della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i
magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per
di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle
disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi
alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati,
anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della
indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per
comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e
raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti
i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per
dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né
tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i
Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto
di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto
vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che
li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il
potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso
pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non
vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal
resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i
secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus
all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto
la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un
magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in
croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico,
autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri
di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati
dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un
parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella
gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente
disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa
magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo
a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese
democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello
Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità
che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti
di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato
da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e
autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un
magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio
automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo
con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in
esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare
liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento
che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe
lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia,
mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a
criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati
per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il
segno distintivo dei limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere generale ha
scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI
OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione
logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal
primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione
mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le
paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse
previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono
arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più
importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e
pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia;
divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati
consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si
son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti,
addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri:
la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che
alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano
la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle
accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son
visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente
ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni
dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere
sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria
genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo
riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari
analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia
consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che
gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i
fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono
stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato
un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste
affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia
(in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era
sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un
muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle
associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la
fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel
dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici
si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa
di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli
Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere
cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e
“thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’
conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli
avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località
se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca
immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la
cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello,
infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di
quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è
soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione
degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la
sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per
sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la
distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche
nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa
con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità
pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di
noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta
(come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle
cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci
assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa
scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che
avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra
comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di
confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene.
Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un
successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per
le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di
delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una
comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno
che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e
della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno
vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio
per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante
che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza:
“ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti
apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese
omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa
Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o
della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per
la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico.
Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica
Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure
qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di
Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad
insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo
poeta Dante Alighieri “Non
ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di
svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di
banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di
malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta
in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia
conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3
magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro
ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi
vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da
noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca
il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia
siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna
una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria
associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013
durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi
all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro
associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai
magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile
2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore
Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala
- che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al
Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone
per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage
di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli
agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta,
si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato:
“Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi
accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco
criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo
è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più
clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in
realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro
Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha
ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre
nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva
anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese,
nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese
per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come
Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si
ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per
diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata
ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta
perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi
tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico
Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel
2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi
collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi
aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio
d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo
non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con
1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo
Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni
dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa
cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio
di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli
altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori
giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed
avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno
spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato
diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo
per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati
all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già
un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco
onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni,
assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata,
Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto
nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco
Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara
Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che
pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia
nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per
ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse
la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che
erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice
Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992.
Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra
i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era
cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011,
invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave
sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e
15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo
Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva
assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a
confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che,
nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto
quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe
Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua
morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è
scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso
forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima
Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a
quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in
rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in
casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle
istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma
quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato,
da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state
distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il
2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero
enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono
poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi
episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento
negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che
comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle
associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni
degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno
rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli,
arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori
non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a
diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente
che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le
similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e
giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco
Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del
caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella
per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora
(l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare
presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali
giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo
di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di
Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia
età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i
giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno
fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla
vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio
di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in
causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era
assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne
riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da
quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne
coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza
aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che
doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non
solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che
ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso,
"cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso,
invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in
un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via
Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia,
sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e
Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in
compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al
casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà;
automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le
accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non
si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non
sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne
condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio
in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di
Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in
un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”,
avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione
resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda
Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso
aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e
Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un
segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”;
e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia”
e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere)
pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava
fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle,
non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per
tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di
sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei
cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello
che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei
pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e
ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca
Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano
farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero
Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle
indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per
proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato
Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova -
ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato
di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una
lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e
giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo
è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni
dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno
influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione
della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile
e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di
tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono
gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che
non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il
resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno
tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad
avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni
risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta
ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi
in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della
procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi
chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La
responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non
sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e
continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio
fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far
finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in
quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare
che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente
normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora
apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi
sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio
quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato
tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso ,
vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra
frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che
entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto
proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni
evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi
consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa
zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena
di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi.
Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti
discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che
se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino
tragicomico». Ed ancora. La madre di
Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della
lettera parla di "Scarsa
collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E'
quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25
gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata
al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha
eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata,
prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un
autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque
al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia
non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di
Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo
italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di
Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il
suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino
allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo
Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una
delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione.
Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di
un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la
cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del
Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali
in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È
stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a
Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per
mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy,
uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40
giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò
l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver
colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei
minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo
della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di
omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda
drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv
sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul
giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta
altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita
(Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e
false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione.
Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due
amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione
“famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo
grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della
prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina
Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno
favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina
ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva
una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse
lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il
fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la
conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate
malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti
ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è
stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi
giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati.
Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande,
scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero
conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri
protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che
nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio
del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca
il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori
della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal
Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro
bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata
dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha
acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire
la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è
schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato
per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana)
Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da
queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra
attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di
questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da
tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di
essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo
fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che
oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da
parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi
che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un
fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e
non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno
Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva
trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio
“ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della
Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate
giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per
studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse
degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo
al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a
rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle
presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna
dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status
symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del
2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più
fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori
felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria
era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di
quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata
dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola
ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro
così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che
qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi
uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash
e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul
Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva
mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad
immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema
Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di
fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo
mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva
scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona.
Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore
al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie.
Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi,
Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si
parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris
Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette
ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato
appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani
erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i
rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime
incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile
shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco
delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una:
da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara
Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby
Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo,
solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito.
Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza
psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha
detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del
processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che
il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al
Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo
sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello
che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche
contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire
Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una
guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la
mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai
giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati
che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno
attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver
avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio
Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità,
l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità,
sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata
sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza
che più mi ha segnato è stata quella del sistema
investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto,
soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che
nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io
sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi
dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita.
Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande
incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni
amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca
in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non
leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che
è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi
coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è
giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare
l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che
più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo
fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di
proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era
più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi
angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho
deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi
ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo
che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi
prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò
quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono
iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone
che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha
raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla
comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella
pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato
un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla
pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e
raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far
accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha
continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver
incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano
Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si
accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che
ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali
mi pento di non aver reagito prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai
magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia
famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare
qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per
convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto
essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio
Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e
disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da
una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di
grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra
persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita
con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto
affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver
detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio
passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane
marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva
il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby -
mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a
mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta
e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in
Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di
Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come
sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per
colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che
mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi
riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo
tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che
giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non
voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco
pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con
violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me».
Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in
“L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma
solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno
voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una
ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del
Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato
anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non
raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma
stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze
e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano
Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni,
riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una
“santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al
magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro
di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche
Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho
capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e
dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge:
«Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe
avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte
dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è
stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico
stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto.
Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il
caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo
grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era
colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova
perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli
accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi
periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di
persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano
manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo.
Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben
pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi
in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa
qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce».
Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in
onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti
con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è
stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi
comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore
attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani
in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di
vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare.
La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho
rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un
parallelismo tra le varie vicende. Chi legge i miei libri, e quello su
Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di
informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di
Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime
settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a
riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha
sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato
della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era
arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei
Misseri?»
Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata
malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive
su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla;
indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono
l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo.
Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul
funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo
meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e
della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi,
quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich
e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi.
Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa
successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher;
dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a
Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana
si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio
per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per
ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta
Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida
della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica
tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in
chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però
non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla
scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo
di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo
non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A
proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese
Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l
i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo
ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi
penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al
massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un
massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia,
sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore
della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi,
quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che
avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si
inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha
annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo
«Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110
persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900
pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a
parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.
«I
magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo
strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio
Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso
altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed
omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente,
lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di
mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non
ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più
solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini:
"Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La
denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte
dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue
l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda.
Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli
avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati.
D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare
a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno
Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex
Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha
denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando
del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i
magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li
ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale
la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare
a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in
vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità
nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria
di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici
tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione
a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la decisione presa
dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza
dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto
dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della
querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella
ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini.
L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti,
appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo
conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati
di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il
parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per
evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale
sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità
sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola
cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per
sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale.
Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello
sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della
Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività
produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di
sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto
al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il
diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i
denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?
Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura
della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli
arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati
denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato
Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della
Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo
D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini
contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini
contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio,
sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché
imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito
anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio
contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la
reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a
Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della
Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze
per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina
in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui
risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale
Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano
politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il
parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta,
inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di
fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però
vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è
parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto)
e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è
un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il
parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone
nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti
non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a
fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante
Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno
di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è
ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009
interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di
Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il
Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del
senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane
parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un
altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta
chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti
domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in
corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il
parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco
degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto
colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di
cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei
giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto
(ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in
cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro
inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio
2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo,
giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto
diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua
professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e
acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in
televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti»
sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa»
alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando
chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate
di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli
«complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta –
è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è
composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono.
Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione
congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e
magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto
Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi,
affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a
Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente
rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla
famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una
lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e
puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente
stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un
passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso
magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per
associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti
d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale
il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per
morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per
Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e
tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare
il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della
Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di
Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della
Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia
sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe
Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia
sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone
puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del Tribunale di
Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto
disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza
Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su
Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di
Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è
stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di
Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la
sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver
pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo,
la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed
il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione
della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende
estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le
cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In
questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che
salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e
che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei
magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi,
no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra
sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione
del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle
motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6
ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a
Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un
rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella
notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina
(d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la
cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la
ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali
riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi
no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le
14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola
Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato
commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa.
Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di
fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al
contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione
della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che
stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si
pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio
che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la
legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il
ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che
il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo
ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non
da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità,
oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie
vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua
sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di
giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha
accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per
tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto
innocente, dichiarato erroneamente colpevole.
Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina
Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di
Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere
per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del
cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima.
Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri
il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni
a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia.
1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe
Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con
pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele
Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da
stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello
stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori
di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello
Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha
dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei
presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla
sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide
merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore
dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi
dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari
Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli
imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo
stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso
sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in
danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in
galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro
omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la
Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso.
Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo
che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene
trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo:
la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»
Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012,
senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la
stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il
processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed
imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto
procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco
Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano
Buccoliero. Ex colleghi oggi
facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul
delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale
sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata
dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state.
Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice
popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita
ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è
sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto
presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della
signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per
motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E
il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei
giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un
fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei
sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono
coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice
latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’
vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che
negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per
l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in
aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il
giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina
Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici
- sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa
che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata
dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.
In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il
presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è
che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione
che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da
un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco
Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito
soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di
Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della
Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si
spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella,
dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va
via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del
suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta.
«Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in
modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da
testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i
metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la
difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale,
non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera
intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore
giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli
inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante
Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise
giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di
astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto
Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella
serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi –
non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue
preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore
ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino
all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della
difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo
una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi
che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci
restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che
i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito
una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad
accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio,
da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non
dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al
rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla
Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta
subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo,
Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di
astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del
collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del
numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo
Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola
Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che
ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino
delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare
in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non
ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo
rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il
difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far
finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la
posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del
professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di
Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto
modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella
fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega
Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti
ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come
mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani
di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con
la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si
associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale
dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il
condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il
fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non
esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o
procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause,
ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i
magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto
del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non
basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in
determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far
riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense
italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli
“azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio
nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio “se il coraggio
uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco
Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la
Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è
detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un
delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità
e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di
Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima.
Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in
combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti.
Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi,
presunti principi del Foro. Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del
foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e
chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La
difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di
assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che
siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con
Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata
della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di
difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale.
Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv,
emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma.
Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le
proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro
della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con
accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e
confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo,
nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il
terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il
delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di
lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv,
emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e
dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di
posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput
all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che
le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito
di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo
sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale
dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere.
«Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi,
abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo
nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo
la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di
ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al
quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci
sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano
state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale.
Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare
di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è
stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai
miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di
assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto
quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci,
che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si
discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada
e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il
presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel
Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini,
rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a
giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due
magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente
del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre
si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati
avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai
dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non
c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e
quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad
astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha
respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese
per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie
difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca
all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del
circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi
inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De
Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi
difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era
un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga
che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere
più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per
l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di
discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute,
abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero
fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era
bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo
parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di
voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che
abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e
spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà
da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e
la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi
state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione
di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione
imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata,
non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti
la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con
un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa
aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far
venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che
sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo
quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare
di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha
fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può
pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non
riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia
dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm
dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due
volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente
gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma
questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel
chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non
si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna
al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per
questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui
assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non
di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto.
Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti
dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo
dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo
con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa
dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione
pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le
sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia
anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che
ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il
professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che
vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno
pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo
visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi
dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare.
Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di
essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori
degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare
questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di
cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto
indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande
impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale
sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un
vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a
voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per
spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è
colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che
riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa
causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente
sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che
quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia
persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele
Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se
questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo
dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta?
Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che
quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per
andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la
presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta
l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete
chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla
remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto
all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina
non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che
si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo
ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e
favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza
finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di
Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse,
che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per
procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già
pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del
delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro
cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma,
all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività
non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola
speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la
fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che
vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della
difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono
alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto
dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune
il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro
categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma
senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa.
Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima
categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la
forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la
pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa
testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita
Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta
Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore
possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della
ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve
tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci
il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua
confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La
confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la
Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati
dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato
come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su
Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle
falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta
dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia,
che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a
cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E
lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa
essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia
capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio,
ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di
eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori.
Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi
c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si
siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di
Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico
inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre
dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e
di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai
tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo
smisurato rispetto per i magistrati tarantini afferma che «Questo è un
processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a
Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola
Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu
posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento
insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa
ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto
Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un
elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui
nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di
aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.»
Questo la dice tutta sul clima che si respira a
Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei
rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da
presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A
Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono
creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di
pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni
d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi
dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa
il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti
in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza
mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e
concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare
la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di
procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la
percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile
per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e
che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la
precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente,
reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di
chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo
impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a
distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un
altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette”
è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche
omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era
colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di
accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione
dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai,
conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il
giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai,
l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il
suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una
recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per
un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle
condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di
intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva
quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un
centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti
omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14
omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna,
altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un
palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo
essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per
denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il
padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un
settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da
un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di
quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla»,
perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di
rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di
psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata
violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le
avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano
anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con
capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più
clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha
deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4
milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2
mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il
caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una
transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero
dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso
vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il
tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il
ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto».
In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi
arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già
viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele
Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno
sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il
30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze
dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una
delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le
persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa
testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti
condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera
trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato
scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri
dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le
sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui -
adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito
le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un
procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di
condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da
una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato
e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i
magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non
erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano
Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage
della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e
vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha
trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia.
Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di
altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre.
«E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto
durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale
per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è
l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata
anch’essa di falsa testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la televisione in
questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta
la comunità avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo
Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle
immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita.
La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e
magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata
difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo
picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di
Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una
condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è
impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”.
L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di
mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri,
dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è
indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne
paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui
vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta
di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti
televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali
tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti.
La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito
con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate
via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti
dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in
cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown
come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è
assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini,
tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con
problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è
tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai
giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny
Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque
famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui.
Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli
abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il villaggio della scuola
di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le
stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana.
Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle
politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla
casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione
o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini
del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus
operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da
molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti
accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un
modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta
romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale
fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito
informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non
dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono
spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane
quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera
persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè
che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono
ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i
loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa
Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la
richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa
di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato
“gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la
cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal
comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un
fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un
reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto
più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share
adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita
dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la
trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti
la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i
giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed
adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da
contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un
processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e
concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle
intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo
è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi,
contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli
intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina.
Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di
Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi
è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli
imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da
un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e
luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del
delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della
Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è
facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi
ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante
(prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono
innocenti, o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna
traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto
colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare
prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed
alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto.
Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei
parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non
può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto
che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi
e servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti
ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia”
ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che
lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’
COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo
potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è
espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in
rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha
ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE
DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei
pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di
avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la
fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”.
Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le
cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che
riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di
abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della
magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva
degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare
pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti
avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi
previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale
anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse:
“fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni
mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati
all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato
ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di
assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si
santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in
mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte
sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è
l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso
assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e
schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche
mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la
Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso
il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A
“Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10
km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto,
perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a
me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita
l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al
processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo
processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato
tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono
passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima
Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri,
Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma,
Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è
tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità
mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte
d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il
processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio
Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di
Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro
della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah
Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri,
moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e
sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore
della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha
chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito
Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo
Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale
insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il
marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di
atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di
fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele
patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti
con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia
Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci
dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che
coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver
visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto
(dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire
due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo,
moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo
amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che
dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste
dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012,
ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare
del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere
con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente
probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato
lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a
giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni
dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino
rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e
L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con
vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah
Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più
volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3)
sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto
grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato
biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando
la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei
contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute
da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita
in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di
espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei
telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini,
interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe
delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e
diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e
non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo
l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla
difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo,
giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a
raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo
emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del
programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili
situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”.
Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno
attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E
forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro
Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari
al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di
Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in
questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe
offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale,
alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene
indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il
giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il
consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di
trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da
Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta
l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso
di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative
all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri,
scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con
l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La
giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo
di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del
garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va
segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a
Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di
Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di
un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De
Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico
Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito
abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro
giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona,
condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore
David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di
Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da
Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011,
quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando
da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla
donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse
di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una
mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del
fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai
protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la
denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà
presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione
di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di
interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah
Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una
denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la
trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8.
L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai
carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio
Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1
si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove
notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso
con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta
Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però
non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era
ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le
indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di
Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset
Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono
arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e
Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che
quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il
cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto
l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente
rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una
vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo
punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè
fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non
avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda
dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un
giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come
dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e
condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può
legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello
che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno
il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca
con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media
siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote
Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di
denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo.
Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di
imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la
multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di
Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare
ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato
all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono
occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente
dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da
burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o
pubblicavamo sui giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La
verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per
l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro
il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da
stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di
sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto
d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che
Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e
prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli
che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso
e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia
spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del
pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in
testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco
si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a
rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte
inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con
i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante
volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati
commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di
Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono,
dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che
quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze
che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai
crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati
così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che
per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed
ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è
che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna
dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la
loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler
rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X,
«Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella
trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare
il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi
spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la
usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori
e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli
assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale)
su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male
anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna
di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi
di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla
difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole
vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta
volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario,
nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della
realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée
instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti
unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la
riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che
solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha
intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua
figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco
Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come
condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire
all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe
iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti
alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di
ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si
rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed
Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che
il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria
chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia
e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona.
Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la
trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da
Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello,
componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio
Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie
del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi
mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie
di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle
con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.
Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con
Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato
perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi
verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere
stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La
possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che
avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo
centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come
Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di
una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti
i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di
magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano
essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott.
Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di
Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo
Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto
Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia
di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso
dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini
erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della
purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza,
stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo
all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che
riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento
al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto
Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica
parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come
quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra
sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere
(si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito
ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio
della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha
raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli
investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che
sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a
riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto:
«L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi.
L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver
visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi
ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena,
ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per
favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove
testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti
e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non
parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità
ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina?
Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi
difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle
udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi,
intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non
dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si
è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter
Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a
Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di
posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput
all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi
l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica
a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De
Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché
prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più
deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le
insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e
culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è
guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo
sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei
cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono
avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le
abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero
che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato
rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri
pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è
certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel
cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a
prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento,
sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la
conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,
rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa
situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata,
privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio
e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni
aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di
informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della
costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che
merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per
gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana
è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere
gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà
poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in
sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di
Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora
e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME
MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo
potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO
MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini
nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del
Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato,
potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito
la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il
contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di
risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la
popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione,
ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e
poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè
Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati
precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come
Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il
soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla
fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete,
quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia.
Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a
gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi
comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah
Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive
al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere
solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva
sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di
quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava
Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni
articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi
trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi
responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti
improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono
Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del
Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato,
violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da
qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi
giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la
mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci
passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2!
Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare
presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali,
con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente
giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli
abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si
sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino
mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il
silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana
si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare
intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di
parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro
lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un
paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato
che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”,
Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in
quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue
8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce
di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva
confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi
del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via
delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse
più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”,
ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia
con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale
ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano
agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un
imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura
mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo
Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro
lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona
di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del
Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile
tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini
poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose
strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il
paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo
Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e
comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal
mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone
nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29
aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da
Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua
intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di
alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto
in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree
l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della
Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della
Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore
dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della
Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o
i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana
Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini,
concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo
i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno
riportato i fatti storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi
dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore
della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite
anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito
Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe
cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che
dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce
alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate
agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento.
Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a
Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli
operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si
spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che
s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta
concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad
Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi.
Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei
giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi
troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo
mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando
l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo
alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti
scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati.
Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo
mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai
suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i
giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro
lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno
spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti
nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in
maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi
non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come
tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire
come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli
ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa
capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi
giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto
sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di
Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi
aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare
un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un
trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti,
ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua
comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da
anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso
capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71
con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi)
contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del
potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora?
Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara
innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo
colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale
a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto
mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno
di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere
in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in
galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina
Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del
“Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la
sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo
di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei
o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad
eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar
prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha
subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha
sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un
sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò
altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e
senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti
risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli
privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un
incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo
è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire.
Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui
ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre
dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha
fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo
ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed
anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un
risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i
genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la
vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate
accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e
l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio
dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in
carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se
narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il
proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico
di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da
parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da
stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo
italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il
gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado
sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in
collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente
confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina.
“Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma
nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.”
L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno
condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le
sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live
su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo
confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza
lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha
intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a
dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a
Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle
famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe
trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a
Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di
Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i
giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è
stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un
uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana
si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione
delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina
e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo
come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno
niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina
Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia
di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua
battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità
storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il
certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere
nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole
ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in
carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con
coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la
D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia
per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso
o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso,
giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di
chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi,
come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi
dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico
nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là
di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua
posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco
religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il
sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista
Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi
articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le
cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati
tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana.
Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli
imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima
Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi
registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di
“Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato
contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza.
L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la
tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A
scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può
essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari,
prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi
italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i
pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali.
Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati
italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione
piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le
richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire
nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide
merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il
processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte
queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per
una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della
gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è
emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi.
Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo
sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare
spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche
Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una
ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di
rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che
«è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto,
secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra
generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come
hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro
ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante
l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano
(madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose
ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la
presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri
Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e
puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella
giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi
dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il
massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo
pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini
a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle
caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio
Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre
mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo
vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il
paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed
apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima
della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e
della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena
dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di
vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le
convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo
condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico,
ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura
e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia
"inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei
bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve
intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno
mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano,
rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del
Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito
il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008
le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio
pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio
perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini
sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti.
«C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini –
afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci
sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto.
La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la
cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate
indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia
italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e
niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente
e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello
Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice
Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so
perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma
qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si
ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia -
aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone
che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di
più per loro». La madre
di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della
lettera parla di "Scarsa
collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E'
quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25
gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata
al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito
l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul
cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista
bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al
Presidente Napolitano tutto il dolore
e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha
ancora avuto giustizia. Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di
Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa
parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che
siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui
io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente,
rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è
la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può
essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte
quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media
ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica
l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo
fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema
inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno
ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed
incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato
periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere
gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero
a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il
cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come
le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe
ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende
umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa,
avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che
miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro
son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate
molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate
improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni
PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli
giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei
Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene
giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati
detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia
minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip,
i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche
per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le
cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro
detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che
conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga
quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino
italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha
fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente
in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a
una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che -
di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti.
Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno
mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente)
dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di
giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne
della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli,
sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio.
Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler
continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma
della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di
Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza
vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato
la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del
cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il
rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché
questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano
al contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha
fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul
delitto di Sarah Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO
ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per
la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto
della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e
di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice
assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha
dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23
febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia
siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una
"magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria
associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013
durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per
raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la
verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice
che ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il senso
della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una
persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus
operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria,
sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale
d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno
dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per
diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il
prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio
turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei
dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto
politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la
Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un
assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un
defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella
vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome
dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per
diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema
disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale
di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a
vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di
un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone,
sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è
stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice
titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una
cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio,
dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve
l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in
quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato
più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal
Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello
di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato,
è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che,
in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può
del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa
quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel
Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per
non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione
distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero
Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse
dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina.
Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito
web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi
dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto.
Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine
del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso
passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta
direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi
sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy.
Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della
privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano
altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era
solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e
d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra
cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a
Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un
Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui
lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del
concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato,
dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e
scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino
a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e
successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo
anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna,
nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e
sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv.
Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da
me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello
Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la
mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano,
sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia
stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata
l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di
una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario
e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare
è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli
organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non
si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane
o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività.
Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua opera
moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?
« Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi
a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi
scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano:
Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici
onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad
arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione.
Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia
presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia
alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in
cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla
Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia
in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un
sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di
Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso
Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver
pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando
questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione
a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in
Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino
all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato
era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato
che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione
di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia
Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato
di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU.
Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia
sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver
chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con
testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile
esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile
di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La
condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata
appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice,
Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto
procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come
tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano
ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era
responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando.
Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe
dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto
l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha
archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I
processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante
le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il
risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro
di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per
questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono
convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il
mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP
chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla
risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova
della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi
è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto
sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia
sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era
attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo
noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa
costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso
reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo
sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla
Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per
farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non
viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero
proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo
del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la
sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io
che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo,
non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se
l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto
riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il
sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era
mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho
moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di
quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli
ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di
pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile
delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita
la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di
Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto
giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria
Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora.
Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie
false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle
parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi
addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi
fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a
Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi
salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me
denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per
me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale
denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei
successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio
destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di
essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio
interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha
rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da
sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era
investita dei miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia
denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle
udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei
denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui
io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone,
sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria
in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non
condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana
per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni
procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha
dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi
riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro
procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De
Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per
diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa
frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal
loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun
controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè
obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese
in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i
responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’
chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente
avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il
Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di
persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in
via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome
Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande,
che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione
antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura
bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad
attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca
121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela
degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi
pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate.
Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente
quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto
astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da
decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di
collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare
che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le
malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i
magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro
carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna
collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di
pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici
giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili
all’attività dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la
richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di
Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e
12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è
stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria
Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al
Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo
Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta
protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio
queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta
della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone
principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad
una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda,
costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco
d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata
per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha
disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e
Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del
filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di
Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e,
nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per
esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una
emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di
Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario
insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti
gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al
sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne
rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di
archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è
avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento
offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla
riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi
familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip
del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla
famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte
tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di
archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda
le immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre
l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il
giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione
presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo
stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la
sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il
gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione
del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le
immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”.
L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo
che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria
incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio
2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati
(oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo
per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del
diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere
l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione
per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni
della procura.»
Dr Antonio Giangrande
Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e
di Tele Web Italia
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religiosa. Il contenuto non è opinione personale, ma frutto delle segnalazioni
pervenuteci in sede di una associazione antimafia conosciuta e stimata in tutta
Italia. Se disturbo basta rispondere “CANCELLA”.
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