Delitti di Stato
ed omertà mediatica.
Quando
la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del
Potere.
Così
scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha
scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
C’è
violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers,
fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi
di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono
arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che
ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per
esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati
o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.
O
come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio
ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare
la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi
pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con
regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai
servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la
stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il
Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere
revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura,
verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza,
ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7
marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista
delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da
una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato:
"Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per
far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la
minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).
O
come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo
l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora
condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di
supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero?
In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è
il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni,
esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora
una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione
domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di
incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014.
Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene
che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così
come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un
"disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al
pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua
a proclamarsi innocente.
Poi
c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai
nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri
forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi
sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo
articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.
Per
quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore),
in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un
decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio,
suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci
sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e
non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le
impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il
personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il
carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I
detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze».
Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia
Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le
testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso
dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si
possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso»
sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo
incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico
che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del
carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun
responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari,
una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle
prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona
Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei
diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si
procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono
facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto
nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come
praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto
e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte
del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo.
Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte
del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non
spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche
peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi
di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non
denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte
del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il
comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile
corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova».
Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia:
sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello
che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il
proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti
dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico
Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno,
Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà,
Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo
tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore
e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione
con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero
quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio
sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci
arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella
24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove
mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota
per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano.
In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della
provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello:
cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella
estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di
Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira
inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero
portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità
con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario
di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti,
sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle
forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che
c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti
e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo
schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla
scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del
carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa
denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario.
Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti
carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per
definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare
quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia,
il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi
aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta
zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla
cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da
un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure
assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione
in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i
permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma
il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza,
Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel
carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli
del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato
sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima
dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di
prove.
Katiuscia
Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di
Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata
ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un
recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche
lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la
denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli
infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis
diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante
l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli
convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato
all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune
in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della
Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente
muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi
ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo,
se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e
nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino
morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di
Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione
della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto
Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto.
Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha
visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà
mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per
“suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel
penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano
ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la
richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Qui
si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di
essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a
morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o
muore durante le fasi dell’arresto.
Foto
e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi
margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci,
quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza
rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.
E
poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano
richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come
nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che
grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta
azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto
duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video
ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze
dell’ordine.
PRESADIRETTA
ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele
Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada
con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della
polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di
ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo
devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti
scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi
dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del
Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori
servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma
quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si
è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze
dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove
i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è
un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta
giornalistica che non fa sconti.
Ottima
la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive su Articolo 21 del 7 gennaio 2014.
“Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse
subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma
difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto
e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto,
“i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole,
ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta
la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica,
quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un
cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato
penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un
casco, da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e
insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo
sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti
nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un
duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di
incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite
avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle
caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,
costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una
giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via
definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da
motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio
di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi
che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa
divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla
Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di
Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e
difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma
semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo
raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una
volta non ignorate.
Le
Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone
esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo
parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.
Primo
contatto. La
pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la
elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e
dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.
Ammanettare
l’avversario. Come
eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo
ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra
l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.
Probabilmente,
come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente
adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di
cose passa per buona ed efficace.
La
versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex
stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche
istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel
suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014.
Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva
appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un
pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva
ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi
sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il
118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il
medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è
morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal
suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le
immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia
fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno
funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un
video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al
fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando
ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a
terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era
ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto
morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in
tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati
presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la
maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto
un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre.
Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da
protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è
perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione,
recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.
Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera
del 30 giugno 2011,
dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano
ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai
giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto
visionare ben 4 filmati
di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo
una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano
procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva
ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in
procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione,
da un arresto cardiaco
che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso
risultano imputati i quattro
poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata
maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio
preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro
depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.
L’abominevole
morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie
Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi,
Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori
di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro
dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non
si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto,
obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca.
Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e
assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si
aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del
libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality
Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a
Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio
Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole,
letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era
schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon
grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso
che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari.
Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva
la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente
incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la
madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse
tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va
dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze,
minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani
addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice
esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi,
anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e
quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi
diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo
solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli
agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio,
mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno
il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la
porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle
crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre
poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo
sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul
dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio
invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo
ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il
fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda
mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118
ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non
respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi
delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da
dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio,
scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la
respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è
bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma
ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva
l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte
e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo
per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia
presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne,
mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per
giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della
“collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la
presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti
conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano
una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm
chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi
cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi
cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo
caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese,
sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è
scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per
almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri,
sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora
ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è
evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente
rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima
di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le
cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di
oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una
conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo
di uno Stato di merda”.
Ferrara,
via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un
controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario
2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni
ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei
tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti,
a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che
mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco
causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa
immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria,
tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della
difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso
senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in
omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri
agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi
giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9
ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una
cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti.
L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle
condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una
situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno
2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge
impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un
sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà
manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in
piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per
scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non
voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare
in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Dr
Antonio Giangrande
Presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia
099.9708396
– 328.9163996
Nessun commento:
Posta un commento